Commercio di armi, ineguaglianze economiche e predazioni ambientali: ecco perché si emigra
I profughi nel mondo sono aumentati in questi anni insieme all'aumento della produzione e del commercio delle armi. Sono aumentati insieme all'aumento delle diseguaglianze economiche tra popoli ricchi e popoli poveri. I profughi sono aumentati insieme all'aumento dei disastri ambientali causati dal surriscaldamento del clima e dall'uso dissennato del territorio e delle sue risorse.
Viviamo in un sistema economico e finanziario perverso che scarica sui più deboli le proprie iniquità e che poi costruisce muri fisici, legislativi, militari per impedire a questi esseri umani di venire a chiedere quello che è stato loro tolto: la speranza di vivere. Se davvero vogliamo dare una risposta razionale e non emotiva, non «buonista» come piace dire ai cosiddetti realisti, al dramma quotidiano dei profughi, agli annegamenti continui di bambini, donne e uomini in fuga, dobbiamo partire da qui. Da questi dati di fatto. Partire da qui, e non dimenticarli mai. E continuare a ricordarceli. Il resto è chiacchiera e demagogia politica. Se non disumanità pura e semplice.
Armi. Se prendiamo in considerazione le prime dieci nazioni da cui provengono i profughi (60 milioni nel mondo, compresi gli sfollati, accertati dall'Onu nel 2014!), vediamo che sono innanzitutto paesi del Vicino Oriente (Siria, Afghanistan, Iraq), poi dell'Africa subsahariana (Somalia, Sudan, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Eritrea), quindi l'asiatico Myanmar, cioè l'ex Birmania. Tutti paesi flagellati dalla guerra, da guerriglie e lotte tra fazioni, da regimi oppressivi, dal terrorismo. Più o meno tutti all'interno di aree che sono di vitale importanza dal punto di vista economico, politico e strategico per l'Occidente, la Russia, la Cina. Vi si scontrano eserciti nazionali, gruppi di opposizione, gruppi terroristici islamisti nelle cui mani, direttamente o indirettamente, legalmente o illegalmente, finiscono le armi prodotte in Europa, Stati Uniti, Russia, Cina.
Per quanto riguarda le guerre nel Vicino Oriente (Afghanistan, Iraq e Siria) rimando all'implacabile analisi dell'esperto e inviato del «Sole 24 ore» (il giornale della Confindustria, non della Caritas), Alberto Negri , che il 10 dicembre 2015 scriveva che sono i petrodollari, il commercio delle armi, il controllo strategico dell'area le ragioni fondamentali che stanno alla base di questi conflitti.
Le monarchie autoritarie del Golfo, ricordava Negri, sono Stati islamici ultraconservatori, monarchie assolutiste che spesso finanziano i gruppi terroristici, Isis compresa.
«Sono però clienti delle maggiori industrie belliche americane ed europee, azionisti delle nostre imprese e grandi investitori finanziari. Gli introiti del loro petrolio in parte tornano indietro perché sono clienti di primordine». E concludeva: «Raschiando il fondo del barile affiora tutta la miseria della geopolitica del petrolio».
E poi parlano di scontro di civiltà. Quale scontro?
L'import militare delle monarchie del Golfo è aumentato del 71% in cinque anni (2010-14) e del 54% nel Medio Oriente in generale, scrive Gianni Ballarini in una documentata inchiesta, «Armi di massa», pubblicata su «Nigrizia» (aprile 2015) e cita il «Global Defence Trade Report» di Ihs, l'agenzia americana di consulting specializzata nel settore delle armi, secondo il quale i governi a livello mondiale hanno speso, nel 2014, 64,4 miliardi di dollari per la difesa, il 13% in più del 2013. Il mercato cresce da 5 anni consecutivi, e nel 2015 risulterà superiore ai 70 miliardi.
Stati Uniti, Russia, Cina, Germania, Francia sono i maggiori esportatori di armi nel mondo. L'Italia è all'ottavo posto, col 3% dell'export mondiale. I maggiori importatori sono India, Arabia Saudita, Cina, Emirati Arabi Uniti e Pakistan.
In Africa, quell'Africa così ricca di risorse minerarie, energetiche, naturali di cui poco o nulla arriva alle popolazioni locali, che è terreno di contesa dei paesi occidentali, della Russia e della Cina, tutti in combutta con questo o quel governo locale o con questa o quella opposizione, e dalle cui guerre e violenze fuggono milioni di profughi, l'import delle armi è aumentato del 45% nelle stesso quinquennio 2010-2014.
Nell'Africa subsahariana finisce il 42% di queste armi. Che continuano ad aumentare dal 1990, come ricorda in un'altra inchiesta Maurizio Simoncelli (« Il Regno attualità », giugno 2015), tanto che le spese militari nel continente sono arrivate nel 2013 a 42,7 miliardi di dollari. I soldi per le armi ci sono sempre.
Vendiamo armi in cambio di petrolio, gas, risorse minerarie e naturali, terra, controllo politico dell'area. A governi dittatoriali, regimi oppressivi, gruppi armati di ogni tipo. Il traffico legale e illegale di armi è fiorentissimo. Un'industria che non ha conosciuto crisi. I proventi sono colossali. E finiscono per lo più nei forzieri dei paesi occidentali.
Per i soldi delle armi, anche quelli sporchi, anche quelli clandestini, non ci sono muri. Solo per le loro vittime. Si può ben capire l'invettiva scagliata da papa Francesco contro i mercanti di armi il 19 novembre scorso: «Maledetti!». Una condanna senza appello di quella «miseria della geopolitica del petrolio» denunciata perfino dal giornale della Confindustria.
Diseguaglianze. Una fotografia spietata di un mondo radicalmente sbagliato e ingiusto ce la offre il Rapporto Oxfam «Grandi diseguaglianze crescono» (Oxford, 2015), il quale stima che nel 2014 il 48% della ricchezza globale era detenuto dall'1% della popolazione mondiale; un altro 46,5% da un quinto della popolazione mondiale, il restante 5,5 dall'80% dell'umanità (lo riporta il «Dossier statistico immigrazione 2015» di Idos).
Ecco: l'80% degli esseri umani ha soltanto il 5.5% della ricchezza che c'è in questo mondo. C'è diseguaglianza più gigantesca e vergognosa di questa? Il capitalismo ha vinto, ma la questione giustizia resta più che mai vergognosamente aperta. Su questo terreno non c'è stata vittoria.
E noi possiamo immaginare che tutta questa impoverita umanità resti ferma a contemplare il proprio infelice destino e la ricchezza altrui, o non vada piuttosto a cercare, dove c'è, quel benessere o quella speranza di vita che non ha?
Abbiamo fatto così anche noi italiani, perché non dovrebbero farlo anche loro? E se 100 mila italiani sono tornati a emigrare nel 2014, cercando altrove una vita migliore, senza partire dalla miseria, perché dovremmo impedire a chi vive davvero nella povertà e nella miseria di cercare altrove una vita migliore?
Se è vero che la situazione nel mondo sta migliorando e che le povertà estreme così come i morti per fame sono dimezzati rispetto a un quarto di secolo fa, è anche vero che le diseguaglianze aumentano e che comunque nell'Africa subsahariana ancora il 32% della popolazione soffre di denutrizione («Fame in Africa», in «Nigrizia», novembre 2015). Una persona su tre. Così come nell'Asia meridionale, altra area da cui fuggono milioni di profughi e migranti.
Se è anche vero, come dice l'ultimo rapporto dell'Unicef, che i bambini morti sotto i cinque anni si sono dimezzati negli ultimi venticinque anni (da 12,7 a 5,9 milioni all'anno), è anche vero che ancora 16.000 bambini sotto i cinque anni muoiono ogni giorno, soprattutto nell'Africa subsahariana: 1 su 12. Una strage quotidiana. In Angola muoiono 254 bambini su 1000 nati.
Perché dei giovani angolani non dovrebbero scappare e cercare altrove, magari da noi, una vita migliore? Che faremmo al loro posto? È solo nostro il diritto di vivere?
In Uganda, ad esempio, il 37% della popolazione non dispone di acqua potabile, gli ospedali rifiutano i malati perché non hanno farmaci, ci sono tantissimi orfani, le scuole sono carenti di tutto. I giovani cercano di andarsene. E questa è la situazione di tanti paesi dell'Africa subsahariana.
O cambiamo questo mondo, o lo rendiamo più giusto, o le differenze abissali di benessere e speranze di vita continueranno a generare milioni di profughi e migranti.
Disastri ambientali. La recente conferenza mondiale di Parigi promossa dalle Nazioni Unite che ha affrontato il tema dei cambiamenti climatici, ha indicato, pur tra tanti limiti, una strada da percorrere per salvare il creato. Perché i disastri ambientali causati dall'uomo sono continuamente cresciuti in questi anni e hanno provocato danni irreparabili, vittime e milioni di profughi.
Le responsabilità dei paesi più ricchi nel deterioramento del clima, nello sfruttamento predatorio e irresponsabile delle risorse energetiche e di tanti ambienti naturali, anche in paesi dove gran parte della popolazione è povera e patisce le conseguenze di queste politiche neocoloniali, sono sotto gli occhi di tutti.
«Tra il 2000 e il 2012 sono stati oltre duemila i disastri naturali di grandi dimensioni, di cui il 94% in Paesi in via di sviluppo e più di 100 milioni di persone annualmente, nel periodo 2000-2012, sono state colpite da disastri naturali legati al clima. Se il livello di innalzamento degli oceani procederà al ritmo attuale, entro il 2100 il solo Bangladesh avrà 35 milioni di rifugiati ambientali.
Si aggiunga che 1 miliardo e 800 milioni di persone soffriranno di scarsità di acqua entro il 2025, la maggior parte in Asia e in Africa. Dagli anni '60 ad oggi, il numero delle vittime dei disastri naturali è aumentato in media del 900%, analogamente a quello degli eventi catastrofici». Così scrive Giancarlo Perego, responsabile di Migrantes , nel suo libro «Uomini e donne come noi» (La Scuola, 2015, p.18). La sintesi è eloquente.
A questo punto, possiamo mai pensare che sia giusto e anche che sia possibile fermare i profughi con i muri, con gli eserciti, con le leggi?
Se la produzione e il commercio delle armi continueranno a crescere, cresceranno anche le guerre e con esse i profughi. Se le spaventose diseguaglianze che ci sono nel mondo non saranno ridotte, non possiamo aspettarci che diminuiscano i profughi in cerca di speranza di vita.
Se non cambieranno le politiche energetiche, ambientali, predatorie nei confronti della terra e dei popoli che la abitano, continueranno ad aumentare i disastri ambientali e con essi le vittime e i profughi.
Un dramma epocale non può che essere affrontato con risposte epocali. Non con incivili, penose, disumane scorciatoie.