Deputati e giornalisti arrestati La Ue ora condanna la Turchia
Dure critiche al regime turco dopo gli arresti di parlamentari e giornalisti dell'opposizione di sinistra. La Ue: «Democrazia compromessa»
«Siamo di fronte a un altro stadio del colpo di stato civile in corso sotto la guida del governo e del Palazzo (del presidente Recep Tayyip Erdogan, ndr). Io e i miei colleghi continueremo a resistere dovunque e sempre contro questo golpe fuorilegge.
Questi giorni di persecuzione prima o poi finiranno di fronte alla nostra resistenza. Continueremo la nostra lotta politica e democratica. Continueremo a ripetere i nostri appelli di pace»: così il leader del partito della sinistra libertaria e filo-curdo Hdp, il deputato Selahattin Demirtas, in un messaggio dal carcere.
Con Demirtas sono stati arrestati diversi altri parlamentari, trattati dalle autorità come terroristi e rinchiusi in carceri di massima sicurezza.
Questa ennesima svolta autoritaria della Turchia guidata da Recep Tayyip Erdogan suscita allarmi a livello internazionale e spinge l’Ue a parlare di «democrazia compromessa».
E poco fa, sabato mattina, un tribunale di Istanbul ha convalidato l’arresto di novi giornalisti e amministratori del quotidiano turco di opposizione laica di sinistra Cumhuriyet, compreso il direttore Murat Sabuncu, fermati lunedì con accuse di sostegno alla presunta rete golpista di Fethullah Gulen e al Pkk curdo.
Tra gli arrestati anche il vignettista Musa Kart, e il noto editorialista Kadri Gursel. L’operazione contro Cumhuriyet, simbolo della stampa di opposizione al presidente Recep Tayyip Erdogan, ha suscitato proteste in Turchia e allarmi a livello internazionale.
In un Paese già spaccato dopo il fallito golpe del 15 luglio e le maxi-purghe di decine di migliaia di persone, l’arresto dei parlamentari curdi ha scatenato reazioni di piazza da Istanbul ad Ankara fino a Diyarbakir, subito represse con la forza dalla polizia, che ha fermato decine di persone. Per evitare le manifestazioni, le autorità hanno anche bloccato per ore i social media, da Facebook a Twitter, e le app di messaggistica come WhatsApp.
In mattinata, con gli arresti ancora caldi, un’autobomba attribuita al partito curdo Pkk - fuorilegge e considerato un’organizzazione terroristica - era esplosa davanti a un edificio della polizia nella ‘capitalè curda Diyarbakir, provocando 9 morti, tra cui 2 agenti, e un centinaio di feriti. Ma poi l’attentato è stato rivendicato dall’Isis.
Una giornata di passione, quella di ieir, in cui la lira turca è crollata ai minimi storici contro euro e dollaro.
Ma davanti alle critiche di Bruxelles, Ankara tira dritto, come sempre: «Non accettiamo lezioni sullo stato di diritto dall’Ue», dove «molti Paesi danno un forte sostegno al Pkk».
E nel frattempo Erdogan continua le sue manovre di palazzo per rafforzare il suo potere e per reintrodurre la pena di morte.
I blitz contro i deputati curdi sono stati condotti in piena notte in 5 province del sud-est.
A vario titolo, sono accusati di aver sostenuto il Pkk - che lotta per la riunificazione dei curdi nelle aree di Turchia, Iran, Iraq e Siria in uno stato federale indipendente - e di aver fatto propaganda in suo favore.
Nei raid sono stati fermati 12 deputati, che si erano rifiutati di presentarsi spontaneamente ai magistrati.
Dopo gli interrogatori, tre sono stati rilasciati in libertà condizionata, con divieto di espatrio.
Altri tre ricercati non sono stati trovati, due di loro sarebbero all’estero.
L’Hdp, terza forza in Parlamento con 59 deputati, ne esce decimato.
Human Rights Watch ha sottolineato la violazione del «diritto di rappresentanza politica e di partecipazione di milioni di elettori».
A permettere i blitz è stata la controversa legge che a maggio ha rimosso l’immunità dei deputati sotto inchiesta, approvata da Erdogan con i voti dell’opposizione nazionalista e quelli, decisivi, di alcuni socialdemocratici.
Ieri il loro leader, Kemal Kilicdaroglu, ha condannato gli arresti, ma il suo partito, che dovrebbe fare da argine a Erdogan, appare spaccato.
Ora dopo ora, la tensione con l’Europa si è fatta sempre più forte.
Per l’Alto rappresentante Federica Mogherini, l’arresto dei deputati curdi «compromette la democrazia parlamentare in Turchia e rende ancora più tesa la situazione nel sud est del Paese».
Il presidente dell’Europarlamento, Martin Schulz, ha parlato di «segnale spaventoso sulle condizioni del pluralismo politico» e ha avvisato che le ultime iniziative di Ankara «mettono in discussione la sostenibilità delle relazioni tra Ue e Turchia».
Allarme anche dal Consiglio d’Europa. «Preoccupato» si è detto pure il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, sottolineando che «l’Italia chiede il rispetto dei diritti dell’opposizione parlamentare».
Anche il premier Matteo Renzi ha espresso preoccupazione per il possibile uso politico della legislazione sull’immunità parlamentare.
Diversi Paesi, dalla Germania a quelli scandinavi, hanno convocato i rappresentanti diplomatici di Ankara.
E ad allentare la tensione, non è bastato un colloquio telefonico tra Mogherini e il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu.
Se sono coinvolti in attività di «terrorismo», ha tirato dritto il premier Binali Yildirim, i curdi devono «pagarne il prezzo».
E di fronte a un Erdogan scatenato, Angela Merkel appare in imbarazzo: la cancelliera è oltremodo allarmata per il tabù abbattuto dalla magistratura in Turchia arrestando Demirtas e quindi ha reagito con il passo diplomatico della convocazione dell’incaricato d’affari turco.
Ma per ora la cancelliera non va oltre ben sapendo che la Turchia, attraverso il vacillante accordo con l’Ue sui profughi, è un argine fondamentale contro gli esodi di massa che dall’anno scorso continuano a danneggiarla politicamente.
La convocazione dell’incaricato d’affari turco al ministero degli Esteri di Berlino è stata annunciata dal dicastero sottolineando che la lotta al terrorismo e ai golpisti di luglio «non può servire come giustificazione» per azzittire l’opposizione politica «o addirittura metterla dietro le sbarre».
Su ulteriori misure il portavoce della cancelliera, Steffen Seibert, non ha voluto pronunciarsi anche se quello che avviene in Turchia è «altamente allarmante»: con Ankara, ha detto, «discutiamo» sui «dubbi» nutriti da Berlino circa la legittimità degli arresti di giornalisti e politici, per i quali l’esecutivo chiede un processo in linea con lo Stato di diritto. E non altro.
Seibert e il portavoce degli Esteri, nelle conferenze stampa trisettimanali, evitano di pronunciare la parola «condanna» per la repressione in Turchia e sottolineano l’importanza di Ankara nello scacchiere mediorientale.
Merkel, che definisce la Turchia una «pietra angolare» della lotta all’Isis, dichiaratamente vorrebbe replicare in Egitto e Tunisia l’accordo tra Ankara e l’Unione europea sulla gestione dei flussi dei migranti. In maniera inconfessabile ma chiara vorrebbe quindi estendere la paratia turca che ha alleggerito la pressione sul filo spinato balcanico del premier ungherese Viktor Orban: un percorso a ostacoli che ha contribuito ad abbattere il numero di migranti arrivati in Germania da 890 mila dell’annus horribilis 2015 a 213 mila dei primi nove mesi di quest’anno.
L’apertura straordinaria delle frontiere tedesche del settembre dell’anno scorso ancora insegue la cancelliera, con ripercussioni politiche di ogni genere: dalla storica ascesa dei populisti di destra dell’Afd, ai cali nei sondaggi di gradimento, alle bizze dell’ala bavarese (Csu) del suo partito che vuole porre un tetto al numero di profughi da accogliere annualmente.
Un limite che Merkel, per motivi costituzionali ma anche di strategia politica nei confronti del fenomeno migrazioni, non vuole porre. L’attrito con la Csu, anche se in via di ricomposizione, è così forte che per la prima volta la cancelliera non partecipa a un congresso della formazione bavarese: la sua assenza alla due giorni di assise di Monaco iniziata in queste ore rompe una tradizione decennale dell’Unione cristiano-democratica e sociale (Cdu-Csu).
E slitta anche di settimana in settimana l’annuncio che molti si aspettano: non c’è nessuno che può candidarsi al suo posto per le politiche dell’anno prossimo.