Giorgiana Masi uccisa 40 anni fa «Lo Stato ha coperto la verità»
L’ultima cosa che Giorgiana vide prima che un colpo di pistola alla schiena la sbattesse con la faccia sull’asfalto di Ponte Garibaldi, fu il profilo dell’isola Tiberina.
Poi cadde a terra di schianto, le braccia avanti e la testa verso Trastevere, mentre attorno a lei si sparava ancora e il fumo dei lacrimogeni opprimeva tutto.
Quarant’anni dopo su quel ponte restano solo la verità mancata e la coscienza sporca di chi sapeva e non ha parlato, da una parte e dall’altra.
Sfilano le auto, gli autobus, la gente a piedi; nessuno fa più caso a quella targa in bronzo che ricorda la studentessa diciannovenne uccisa il 12 maggio del 1977 «dalla violenza del regime».
Come se solo l’indifferenza, l’oblio, fossero le uniche alternative alle risposte mai arrivate.
Giorgiana Masi fu uccisa in un giorno di festa. [[{"type":"media","view_mode":"media_preview","fid":"1583476","attributes":{"alt":"","class":"media-image","height":"180","style":"float: right;","width":"180"}}]]
Tre anni prima più di 19 milioni di italiani avevano detto no al referendum che voleva abrogare la legge sul divorzio e i radicali avevano organizzato una manifestazione, «pacifica e nonviolenta» ripetono anche oggi, a piazza Navona. Gli scontri cominciarono però presto e durarono ore, fino al tragico epilogo su ponte Garibaldi.
Le forze dell’ordine da una parte, quella di via Arenula, verso il centro, i manifestanti dall’altra, a piazza Sonnino, verso Trastevere. Giorgiana finì in mezzo, colpita alle spalle da un colpo di pistola calibro 22.
In «Cronaca di una strage», il libro bianco dei Radicali, quegli istanti vengono ricordati così: Giorgiana aveva «la bocca chiusa e i denti serrati, i grandi occhi neri sbarrati. L’impressione fu che avesse avuto un attacco epilettico, qualcosa di strano.
Non perdeva sangue, non si notava la ferita».
Lelio Leone era su quel ponte. «La polizia caricò con le autoblindo... Gli altri compagni, all’altezza di largo Sonnino, stavano formando delle barricate... assurdo dire che i colpi siano venuti dalla loro parte: io ero uno degli ultimi ed ho visto tutti con la schiena voltata...
Giorgiana, correva ad un metro e mezzo da me. È cascata con la faccia a terra. Ha tentato di rialzarsi... I colpi venivano solo dalla parte dove c’era la polizia. Assieme alla polizia c’erano molti in borghese. Quelli in divisa erano sulle autoblindo...
Alla metà del ponte ci sono due rientranze in muratura: lì si sono appostati quelli in borghese, ed hanno sparato».
La polemica esplose quando uscirono le foto che confermarono quanto detto da decine di manifestanti: in piazza c’erano poliziotti in borghese che spararono ad altezza uomo.
E altrettanto fecero alcuni in divisa.
Ma Cossiga in Parlamento aveva detto il contrario.
Poi l’allora ministro dell’Interno tornò alle Camere e rimosse chi gli aveva dato l’informazione, ma si guardò bene dall’aggiungere altro.
Fino al 2005, quando se ne uscì con la versione del «fuoco amico» che gli sarebbe stata rivelata poco dopo il 12 maggio da uno dei magistrati che indagavano e dall’ex capo della polizia Ferdinando Masone: Giorgiana, disse, fu uccisa da proiettili «vaganti sparati dai dimostranti, forse dai suoi compagni e amici con i quali si trovava contro le forze dell’ordine».
Cossiga «continua a mentire» ribadì indignato Pannella.
Negli anni si è ipotizzato anche il coinvolgimento del neofascista Andrea Ghira, uno dei massacratori del Circeo. Lo chiamò in causa il suo compare Angelo Izzo sostenendo che usò le armi che aveva in dotazione ‘Dragò, il gruppo eversivo di cui facevano parte. E si è arrivati anche a sostenere, nel 2001, che il colpo fosse partito da una pistola calibro 22 ritrovata in un covo delle Br.
La verità è che non si è mai arrivati alla verità: l’inchiesta fu archiviata il 9 maggio del 1981 dal giudice Claudio D’Angelo con la dichiarazione di non doversi procedere per essere rimasti ignoti i responsabili del reato.
E da allora a nulla sono valsi i tentativi dell’avvocato della famiglia Luca Boneschi di far riaprire il processo. «Terrò le carte finchè sbiadiranno - raccontò - Gli errori, forse anche le manipolazioni, avvengono con le perizie». Boneschi è morto un anno fa. Come da tempo sono morti i genitori di Giorgiana, Aurora e Angelo. E come sono morti l’ex capo della polizia Masone, Cossiga e anche Giorgio Santacroce, il pm dell’inchiesta, lo stesso che indagò su Ustica.
Quando cadde su ponte Garibaldi, Giorgiana frequentava la quinta A al liceo Pasteur.
Quarant’anni dopo i ragazzi hanno organizzato un’assemblea. Chiara Corrente è la rappresentante d’istituto.
«Non vogliamo solo commemorare Giorgiana. Vogliamo rilanciare ciò che probabilmente la fece scendere in piazza quel giorno: la voglia di manifestare, di partecipare e contribuire alla vita politica e alle scelte che ci riguardano direttamente, a partire dalla scuola. Ci sembra importante in un momento in cui questa voglia sembra spegnersi». Come il ricordo sulla targa.
I RADICALI: RESPONSABILITÀ POLITICHE CHIARE DA 40 ANNI
Anche oggi i radicali ribadiscono che le responsabilità politiche di quell’omicidio, per i Radicali, sono chiare da 40 anni e sono sempre le stesse. Anche se resterà un mistero l’identità di chi ha sparato.
Quel 12 maggio «pezzi dello Stato» volevano il morto. Anzi, «volevano la strage» per stroncare quella parte di società che si opponeva al «grande abbraccio Dc-Pci».
Non c’è più Marco Pannella e non c’è più Luca Boneschi, militante radicale dal 1956 e avvocato della famiglia Masi, che per anni tentò, invano, di arrivare alla verità e l’unica cosa che ottenne fu una denuncia per diffamazione dal giudice istruttore che archiviò l’inchiesta. Ma molti di quelli che quel giorno erano in piazza Navona sono convinti che andò così.
«Anche oggi che sono passati 40 anni, noi Radicali non abbiamo nulla da rimproverarci. C’era qualcuno che voleva un altro morto e l’ha avuto. Che fosse Cossiga, questo qualcuno, non credo. Ma lui ha la responsabilità morale di aver assecondato questo qualcuno» dice Giampiero Spadaccia, allora presidente del Consiglio federale dei Radicali.
Assieme all’allora segretario Adelaide Aglietta, Spadaccia chiamò il ministro dell’Interno la sera dell’11 maggio. In piazza Navona i Radicali stavano già montando il palco. «Gli dicemmo che, se aveva già deciso di bloccare la nostra iniziativa, avrebbe potuto intervenire quella sera facendo smontare il palco dai poliziotti che erano già lì. Ma non fece nulla». Valter Vecellio, giornalista e militante, il 12 maggio fu picchiato due volte, prima dai carabinieri e poi da un agente in borghese.
«Ci fu un’aggressione scientifica da una sola parte - ricorda - per ore il martellamento delle forze dell’ordine ha colpito chiunque si trovasse lì, non guardavano in faccia a nessuno. C’erano poliziotti che sparavano ad altezza uomo, non importava se a morire fosse un carabiniere o un manifestante, come poi è accaduto. Qualcuno doveva morire». Perchè? «Perchè cercavano la strage - risponde - l’avevano pianificata deliberatamente con un’azione provocatoria. La volevano fortemente, ma non sono riusciti ad ottenerla».
Roberto Cicciomessere è uno degli autori di «Cronaca di una strage»: un lungo atto d’accusa contro le forze dell’ordine contenente decine di foto di poliziotti armati e di testimonianze di quel giorno. Ad oggi è ancora uno dei pochi documenti disponibili per ricostruire quanto accadde il 12 maggio.
Sentii decine di persone, chiesi a tutti i fotografi di consegnare i loro scatti. Tutti ricordano la foto di Giovanni Santone, il poliziotto in borghese - racconta - ma la testimonianza fondamentale è un’altra: un video girato in super 8 da una signora che abitava in piazza della Cancelleria in cui si vedono chiaramente due poliziotti in divisa, nascosti dietro le colonne, che estraggono la pistola dalla fondina e sparano ad altezza uomo». Quelle immagini smentivano clamorosamente quanto detto dal sottosegretario Nicola Lettieri in Parlamento: «le forze di polizia non fecero uso di armi da fuoco».
Quel filmato è in circolazione da 40 anni, ma non ha cambiato il destino dell’inchiesta.
«La magistratura allora era un pò diversa da adesso, c’erano pochissimi margini di manovra» sottolinea amaro Cicciomessere. «Chi era il pm che fece le indagini su Giorgiana? - chiede senza ironia Vecellio - Giorgio Santacroce. E chi condusse la prima inchiesta su Ustica, quella dei depistaggi? Giorgio Santacroce». Quel libro, aggiunge, «non è mai stato smentito, mai sequestrato. Eppure non è servito a nulla. D’altronde quando mai avrebbero potuto ammettere che settori dello Stato avevano pianificato quel che è successo?».
Si torna dunque alla politica. E a Cossiga.
«La mattina del 12 maggio - ricorda Spadaccia - viene impedito l’accesso a piazza Navona ma non in centro. Centinaia di persone restano bloccate nelle cariche. Se Cossiga la sera dell’11 avesse detto ai poliziotti di smontare il palco noi avremmo protestato, avremmo fatto casini in Parlamento, ma avremmo capito.
Evidentemente il progetto era un altro».
TANO D'AMICO, QUELLA FOTO E UNO STATO «CHE AVEVA BISOGNO DI MORTI»
Un uomo in jeans e maglietta, leggermente piegato in avanti come se stesse correndo, la borsa di Tolfa a tracolla e la pistola in mano.
Quella del poliziotto in borghese Giovanni Santone fu la scatto che rivelò le bugie di Cossiga al Parlamento e all’Italia, ma non bastò ad arrivare alla verità su quel 12 maggio del 1977: «Andai a letto convinto che Cossiga si sarebbe dimesso la mattina dopo. Invece sono io che sono stato dimesso da tutto, perchè avevo rotto le scatole».
Sono passati 40 anni da allora e Tano D’Amico continua ancora a girare tra la gente con la sua macchina fotografica.
Il giorno in cui morì Giorgiana Masi arrivò in centro molto presto. Roma era blindata. Il divieto di manifestare durava da mesi. «Ero angosciato - racconta - si capiva che sarebbe stata una giornata difficile. Vado a piazza Navona, dove era in programma l’iniziativa dei Radicali, e capisco subito il clima. Picchiavano anche i parlamentari».
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Ma è a poca distanza, tra corso Vittorio e piazza della Cancelleria, che ci sono gli scontri più violenti. Gli agenti sparano lacrimogeni ad altezza uomo. E sparano con le armi d’ordinanza, come documenta un video che da quarant’anni attende una risposta. Tano è lì, l’agente Santone neanche lo guarda quando lui scatta.
«Ma la fortuna di quella foto - dice Tano sorridendo - non è quel che si vede: un’agente in borghese con la pistola era normale per quei tempi, tanto che non l’avevo neanche stampata.
La cosa che fece la fortuna di quella foto, fu che Cossiga disse che non c’erano in piazza agenti in borghese».
Quando sentì le parole dell’allora ministro dell’Interno, Tano sobbalzò.
Avvisò i Radicali che aveva quello scatto e loro lo «fecero stampare e ne fecero 40 mila poster con cui tappezzarono l’Italia».
E fece il giro dei giornali, che pubblicarono la foto e scrissero contro il ministro. Ma Cossiga rimase al suo posto.
Tano diventa serio. «Non ho mai subito minacce dirette, ma nell’80 mi hanno tolto il lasciapassare stampa. In quel periodo inoltre, due colleghi che frequentavano la questura e di cui non farò mai il nome, vennero da me. Senza mai guardarmi negli occhi mi dissero: “parlavano di te, li abbiamo sentiti, dicono che te la faranno pagare”. Ero terrorizzato, dissi solo “che posso fare?”. Rispose uno di loro, non dimenticherò mai quelle parole.
“Non imboccare mai una strada se non vedi altri passanti”».
Ma non tutti i poliziotti erano contro di lui. Il fotografo racconta che diversi agenti andarono da lui.
«Mi dissero che Giorgiana era una donna e i poliziotti che io avevo fotografato erano uomini. Mi hanno voluto chiaramente dire che Giorgiana è stata uccisa in quanto donna, per non correre il rischio di uccidere un loro collega».
Un giorno, tanti anni dopo quel 1977, D’Amico ebbe l’occasione di parlare direttamente con Cossiga: «Gli chiesi perché fece picchiare le donne che il giorno dopo l’omicidio di Giorgiana erano andate su ponte Garibaldi a piangere. E gli chiesi perché aveva mentito all’Italia e al parlamento. Lui - ricorda Tano - rimase un attimo in silenzio, poi rispose. “È vero”, mi disse. E aggiunse che prima di mentire aveva parlato con una serie di persone di cui fece i nomi. Erano i padri della patria dell’epoca. Quel giorno ha agito per lo Stato, servivano dei morti, ne volevano tanti, ne hanno fatti pochi».