Vittima / Inchiesta

Diciottenne morto bruciato vivo in cella a San Vittore: "Non doveva nemmeno essere in prigione"

E’ rimasto imprigionato nel bagno dopo aver appiccato le fiamme a un materasso: “Incapace di intendere e volere, era traumatizzato dalle violenze in Libia”

MILANO. Non sarebbe riuscito ad uscire dal bagno della cella dove aveva appiccato l'incendio, dando fuoco ad un materasso, perché la porta sarebbe rimasta ostruita dalla pesante branda del letto che aveva trascinato dentro, forse con l'aiuto dall'esterno dell'altro detenuto. È questa una delle ipotesi su cui lavora la Procura di Milano in relazione alla morte del diciottenne tunisino Youssef Mokhtar Loka Barsom, avvenuta il 6 settembre nel carcere di San Vittore, dove era rinchiuso dallo scorso luglio in attesa di giudizio per una rapina.

Dagli esami autoptici è emerso che il giovane è morto per le esalazioni del fumo del rogo, che potrebbe essere stato appiccato per una forma di protesta. Stando ad una ricostruzione ancora al vaglio, nell'inchiesta della Polizia penitenziaria, coordinata dal pm Carlo Scalas della Procura guidata da Marcello Viola, il 18enne potrebbe aver portato il letto all'interno del bagno, per dargli fuoco con un accendino e forse - ma non è ancora certo - con una sostanza accelerante. Si sarebbe fatto aiutare nel trasportare il letto dal compagno di cella dall'esterno del bagno, ma poi, dopo aver acceso il fuoco all'interno, la rete pesante del letto avrebbe bloccato la porta, chiudendola, e impedendo al 18enne di uscire. Il fascicolo è stato aperto per omicidio colposo a carico del compagno di cella del 18enne.

Il ragazzo già in passato, quando era ancora minorenne, si sarebbe reso responsabile di altre due rapine, per le quali, però, era stato assolto per vizio totale di mente. Sottoposto a perizia psichiatrica, infatti, il giovane era stato ritenuto incapace di intendere e volere, oltre che socialmente pericoloso per sé e per gli altri e, dunque, incompatibile con la detenzione in carcere. Gli era stata applicata una misura di sicurezza. "A 15 anni era finito in un campo di concentramento in Libia, esposto continuamente alla violenza", aveva spiegato l'avvocata Monica Bonessa, che lo ha assistito nei primi due processi, quando ancora era minorenne.

"Era arrivato in Italia su un barcone con mani e piedi legati - aveva aggiunto la legale - Un'esperienza di cui lui non riusciva nemmeno a parlare". Nel procedimento per l'ultima presunta rapina, che avrebbe commesso da maggiorenne, non si era riusciti, però, ad arrivare ad una perizia psichiatrica in incidente probatorio per valutare le sue condizioni. Oggi "una commemorazione laica, aperta alla cittadinanza, per salutare Youssef" si è tenuta al Cam di corso Garibaldi, a Milano, organizzata da associazioni e volontari che si occupano delle problematiche delle carceri.

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