Agosto, cuoco mio non ti conosco

di Vittorio Colombo

 

 

 

 

 

Arriva la Quaresima ed è il caso di fare un po’ di penitenza. Il riferimento è al mio precedente intervento sulle prospettive del turismo non solo a Riva ma in tutto l’Alto Garda e Ledro. Dopo il grido di allarme di inizio anno (“c’è la crisi, aspettiamo molte stanze vuote”) i vertici di Ingarda hanno rilanciato l’ottimismo, illustrando pacchetti, offerte ed iniziative.

In questo periodo, dopo i saldi e il “fuori tutto e tutti” , negozi, ristoranti, pizzerie sono in buona parte chiusi per ferie. Periodo questo di transizione, in attesa dell’ auspicata ripresa, economica e turistica, che dovrebbe arrivare con la stagione (tarda) primavera-estate. Il dibattito avviato su questo tema ha portato in evidenza un tema che merita una qualche attenzione. Ed è quello della professionalità degli operatori, della loro capacità di investire innovare, e della presenza (o meno) in zona di personale, ad ogni livello, in grado di fornire delle garanzie.

Qualche bel problema indubbiamente c’è, forse è strutturale (e, dunque, quello che succede nell’Alto Garda e Ledro succede dappertutto) e, forse è in qualche modo legato ad un andazzo che è proprio della nostra zona.

Ho dato un passaggio, qualche giorno fa, ad un cuoco albanese che lavora in zona. Che mi ha fatto il seguente quadro: i cuochi sono, in larga parte, extracomunitari o di altre nazioni della comunità europea; lo stesso (anche se in misura minore) per camerieri e personale addetto a pulizia e manutenzione. Va tutto bene, per carità, ci mancherebbe… ma che fine fanno i numerosi giovani che frequentano la scuola Alberghiera di Varone?

Il quadro, che fa decisamente riflettere, che mi ha fatto il cuoco albanese è il seguente: la professione del cuoco è tale da richiedere una disponibilità totale, non ci sono orari, né dopo mezzogiorno, né la sera. Poi non c’è la possibilità di stabilire dei turni di lavoro e di riposo fissi. Talvolta se non c’è lavoro si viene spediti a casa. Secondo il mio interlocutore questa è una situazione diffusa, conosciuta ed accettata.

Ci sono meccanismi che non consentono - affermano i datori di lavoro- di fare altrimenti. Si dice poi, non per far polemica ma per inquadrare una situazione, - che i giovani che escono dall’Istituto Alberghiero fanno fatica ad adattarsi a questo sistema, che di regole ne ha in fondo poche. E’ una vita di sacrificio quella che ti porta a lavorare, nella bella stagione, ad agosto e ferragosto, di sabato e di domenica, di giorno e di notte, sacrificando affetti e vita privata,  e poi ti lascia a casa nei mesi invernali, quando la stagione fredda e la mancanza di opportunità sono penalizzanti sotto il profilo della qualità della vita.

I termini della questione appaiono difficilmente conciliabili. Il lavoro, nell’ospitalità turistica, è questo e solo questo? E’ necessario, visti i tempi grami, adattarsi e fare sacrifici? I nostri giovani, quelli che studiano nei centri professionali, non hanno ragione a chiedere condizioni lavorative diverse? Oppure non hanno sano realismo e non sanno fare sacrifici necessari?

E’ vero, poi,  che si preferiscono gli extracomunitari perché costano meno rispetto ad un diplomato all’alberghiera? E ancora: la scelta di cuochi che vengono da lontano offre garanzie di professionalità, o è solo scelta di comodo? Non sarebbe il caso di affrontare la questione (ma chi può farlo?), cercando una regolamentazione che necessariamente non debba penalizzare i titolari delle attività ma che nello stesso tempo  dia delle garanzie ai giovani ed alle famiglie che fanno sacrifici per un diploma professionale che promette altre cose rispetto a quella che poi è la realtà.

 

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