Conti pubblici:le favole del premier
Guido Carli insegnava che il debito pubblico ha anche e soprattutto un significato sociale e politico. Lo considerava, dopo la casa, la ricchezza principale delle famiglie italiane e una garanzia per la continuità democratica del Paese. Non a caso, lui stesso si adoperò, da ministro, affinché i cittadini risparmiatori acquisissero «un diritto di voto quotidiano sul governo del Paese», voto che si esercitava con la possibilità di investire i risparmi sottoscrivendo titoli emessi da altre nazioni. L'acquisto dei Bot diventava così, di fatto, un atto di fiducia nei confronti dell'Italia. E se la prendeva, lo stesso Carli, con coloro che via via invocavano misure forzose di consolidamento e ristrutturazione del debito, operazioni che considerava possibili solo «in un regime come quello che consentiva il massacro a bastonate in pieno centro di Roma di una persona del valore di Giovanni Amendola». Sembrano passati secoli, molte cose sono cambiate, la lira non c'è più e i Bot, per nostra fortuna, hanno rendimenti molto più bassi di allora e, forse, hanno perso, almeno in parte, quella funzione di «continuità democratica». Altre cose, però, sono rimaste più o meno le stesse. Il debito pubblico, tanto per cominciare, e la «spirale di Sisifo delle ricorrenti manovre di finanza pubblica». Non più tardi di una decina di giorni fa, la Banca d'Italia ha certificato il nuovo record del debito pubblico italiano, che a maggio ha toccato quota 1.827,1 miliardi di euro, aumentando di 15 miliardi rispetto al mese precedente. Solo quest'anno, il valore del debito è salito di 65,8 miliardi, segnando un incremento del 3,7%. Il rapporto debito/Pil ha superato nel 2009 il 115%, e le stime della Commissione europea prevedono un ulteriore incremento del debito pubblico italiano fino al 118,9% del Pil nel 2011. Non sono, peraltro, le più pessimistiche. In pratica, siamo tornati ai livelli precedenti il grande risanamento dei conti pubblici che, negli anni Novanta, accompagnò l'adesione italiana alla moneta unica. Tra il 1994 e il 2007, il rapporto tra debito pubblico e Pil era diminuito di 18 punti percentuali; nell'ultimo biennio, caratterizzato dalla crisi mondiale e dalla conseguente recessione, quello stesso rapporto è aumentato di ben 12 punti (fonte Bankitalia). Il premier Berlusconi, da sempre a disagio di fronte a scelte impopolari, figuriamoci poi quando si tratta di annunciare agli italiani l'intramontabile «stangata», cerca sempre un colpevole. E gli indiziati più gettonati sono, su questo versante, due: la «crisi», evento planetario che ci è piombato addosso nostro malgrado, e sulle responsabilità del quale non ci si fanno troppe domande, e la «sinistra», che quel debito abnorme ci avrebbe lasciato «in eredità». Che la crisi economica abbia influito pesantemente sull'andamento dei conti pubblici italiani, non lo si può negare. Se rimaniamo al dato del rapporto debito/Pil, è evidente che sul peggioramento di quel valore pesa la caduta, nell'ultimo biennio, del prodotto interno lordo italiano di 6 punti e mezzo: si è quasi dimezzata, tanto per intenderci, tutta la crescita del decennio precedente. Ma..., c'è un ma: in un periodo più o meno equivalente, tra il 2005 e il 2008, secondo i calcoli di Bankitalia, gli evasori avrebbero dribblato l'Iva per 30 miliardi di euro l'anno, due punti di Pil. Se l'Iva fosse stata regolarmente versata, ha recentemente spiegato il governatore Mario Draghi, l' Italia avrebbe uno dei rapporti debito-Pil più bassi d' Europa. E Tremonti non avrebbe dovuto fare una manovra, toccare le pensioni, bloccare il turn over, tagliare i fondi alle regioni. Insomma, se si cercano colpevoli, in cima alla lista bisognerebbe mettere gli evasori. Prima della crisi, prima della sinistra. E veniamo a quest'ultima. Davvero ha lasciato una così pesante eredità negli anni (pochi) in cui ha governato? L'esplosione del debito pubblico italiano viene ricondotta all'estensione del welfare state, che dall'inizio degli anni Settanta del secolo scorso si caratterizzò come un sistema tanto costoso quanto inefficiente. Da un lato il progressivo invecchiamento della popolazione, dall'altro un'espansione incontrollata della spesa, finanziata non con l'aumento della pressione fiscale (nel 1985 la tassazione media in Italia era del 34,6% del Pil, contro il 41% della media europea), ma con l'indebitamento statale, indirizzarono le finanze pubbliche statali su binari tutt'altro che virtuosi. Nel 1980, il rapporto debito/Pil era al 57%: l'Italia di allora avrebbe rispettato il parametro di Maastricht. Ma sempre in quegli anni, nel 1981, il cosiddetto «divorzio» fra Tesoro e Banca d' Italia sancì la fine dell'obbligo, per la seconda, di garantire in asta il collocamento dei titoli del debito emessi dal primo. In buona sostanza, venne meno la possibilità di finanziare il debito battendo nuova moneta e alimentando le spinte inflazionistiche. La prima conseguenza fu l'aumento del fabbisogno del Tesoro e l' escalation della crescita del debito, fino al record di un rapporto sul Pil pari al 124%, raggiunto nel 1994 (fonte Bankitalia). È l'anno, come ben si ricorderà, della «discesa in campo» di Silvio Berlusconi e di Forza Italia. Già da un biennio almeno l'Italia aveva avviato una decisa politica di ridimensionamento del disavanzo. Nel 1992, dopo un decennio di disordine finanziario (i rutilanti anni Ottanta, il pentapartito, Craxi e il Caf...) il Paese si ritrovò sull'orlo del baratro, a un passo dal default e con concreti rischi di insolvenza. Giuliano Amato fu chiamato a palazzo Chigi, e rimise in sesto i conti con il prelievo forzoso sui conti correnti degli italiani, deciso in una notte, e poi con la famosa finanziaria «monstre» di quasi 100 mila miliardi di lire. In quegli anni, il rapporto debito/Pil era già raddoppiato rispetto al 1980 e aveva superato la soglia del 100%. Ua caduta vorticosa. Per risalire, e per tornare ai livelli pre anni Ottanta, con un debito pubblico intorno al 60% del Pil, secondo i calcoli della Commissione europea l'Italia dovrà realizzare ogni anno, e per i prossimi 40 anni, un avanzo di bilancio strutturale del 3% del Pil. Come ha scritto Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea, «la politica di finanza pubblica messa in atto negli anni Ottanta ha scaricato sul cittadino italiano medio oneri aggiuntivi fino a mille euro l'anno, dalla metà degli anni Novanta e per i prossimi 45 anni». Questa sì è un'eredità, e non ci è stata lasciata dalla «sinistra», così come la intende il premier. Giacché potremmo anche considerare tale la costola socialista del pentapartito (Craxi, per intendersi), ma non possiamo dimenticare che proprio Forza Italia non ha mai nascosto vicinanza e affinità elettive con il garofano socialista, avendone peraltro arruolato nelle proprie fila molti esponenti, autorevoli e non. Quanto al resto del pentapartito, malgrado sforzi intellettuali non trascurabili, riesce difficile connotarlo come «di sinistra». Torniamo ai numeri e proviamo a concentrarci sull'avanzo primario, variabile cruciale in una strategia di riduzione del debito pubblico. Nel 1994, quando Berlusconi varca per la prima volta le porte di palazzo Chigi, l'avanzo primario, in rapporto al Pil, è al 2,3%. Nel 1995, con il governo Dini, frutto del «ribaltone», le cose migliorano e saliamo al 4,2%. Nella legislatura 1996-2001, l'unica governata per intero dal centrosinistra (governi Prodi, D'Alema I e II e Amato), il risanamento prosegue. Nel 1996 l'avanzo primario è al 4,6%, nel 1997 al 6,6%, nel 1998 al 5,1%, nel 1999 al 4,9%, nel 2000 al 5,5% nel 2001 al 3,2% (fonte Istat). Nello stesso periodo, la pressione fiscale resta stabile, intorno al 42% e dunque nella media Ue, con l'eccezione del 1997, che segna il picco di prelievo tributario (43,7%) in corrispondenza con il massimo sforzo per l'adesione all'euro e la cosiddetta eurotassa (fonte Istat). Il rapporto debito pubblico/Pil registra, dopo anni di crescita, un deciso ridimensionamento: 120,9% nel 1996, 118,1% nel 1997, 114,9% nel 1998, 113,7% nel 1999, 109,2% nel 2000, 108,8% nel 2001 (fonte Banca d'Italia). L'11 giugno 2001 si insedia il secondo governo Berlusconi. Vediamo l'effetto della sua politica economica: l'avanzo primario passa dal 3,2 al 2,7%, e il calo prosegue negli anni a venire: 1,6% nel 2003, 1,2% nel 2004, 0,3% nel 2005, 1,3% nel 2006. In quell'anno Romano Prodi vince le elezioni e vara, tra mille difficoltà, un governo che avrà vita breve. Breve ma non irrilevante: nel 2007, invertendo la tendenza degli ultimi anni, il saldo primario risale al 3,1% e al 2,5% nel 2008. Nel maggio di quell'anno, Berlusconi vara il suo quarto governo. Nel 2009, per la prima volta dal 1990 (sesto governo Andreotti), il saldo primario torna in territorio negativo: -0,6%. Significa che le uscite dello Stato, al netto della spesa per gli interessi sul debito, sono maggiori delle entrate. Non si risparmia, e se non si risparmia, il debito non può calare. Spesso l'avanzo primario viene definito come una sorta di assicurazione per la tenuta dei conti pubblici, soprattutto per un Paese ad altissimo debito (il terzo al mondo) come l'Italia. Bene, noi, oggi, quell'assicurazione non ce l'abbiamo più. È scaduta e non l'abbiamo rinnovata. È evidente che la congiuntura internazionale ci ha messo del suo, ma almeno risparmiamoci lo scaricabarile su chi c'era prima, perché i numeri, che non sono né di destra né di sinistra, raccontano un'altra storia.