Taranto, una storia tragica
Di fronte al dramma umano di Taranto, alla privazione del diritto alla salute e poi anche di quello al lavoro, l'indignazione è forse il sentimento più naturale.
Per noi che la osserviamo a distanza di sicurezza è impossibile comprendere fino in fondo la tragedia vissuta sulla propria pelle dai lavoratori e dagli altri cittadini di un territorio massacrato, fra ricatti occupazionali e contaminazioni (non solo dall'Ilva) che producono malattia e morte.
Si può, tuttavia, osservare che la vicenda è tristemente paradigmatica: rappresenta, purtroppo nella cruda realtà della vita quotidiana, i fallimenti ultradecennali delle classi dirigenti italiane, pubbliche e private.
Nella situazione specifica, c'è il vuoto assoluto di programmazione seria per la bonifica (che oggi ragionevolmente richiede tre-quattro miliardi di euro) o più auspicabilmente la conversione di un sito (a quel luogo si è già chiesto troppo in termini di salute, forse per quelle produzioni in ogni caso impattanti si poteva da tempo costruire un decentramento).
Invece si sono lasciate andare le cose sostanzialmente senza governarle: una ventina d'anni fa una comoda privatizzazione che ha consentito a un'azienda di fare profitti anno dopo anno. Ciò, senza obbligarla a mettere parallelamente in cantiere azioni di risanamento del ciclo produttivo, a tutela della salute dei lavoratori e della popolazione, esposta a un rischio epidemiologico impressionante, specie (ma non solo) in relazione a una serie di patologie tumorali e di problemi alle vie respiratorie.
Anche dopo l'avvio dell'inchiesta della magistratura (2007) le classi dirigenti pubblica e privata (così come il sindacato) hanno tergiversato e si è giunti all'accelerazione degli ultimi mesi e a un inqualificabile atteggiamento rissoso di alcuni esponenti del governo nei riguardi dei giudici che fanno il loro mestiere.
Ora, di fronte alla prospettiva di un nuovo ricatto occupazionale, il riflesso condizionato della politica è stata l'evocazione di provvedimenti opachei e dai contorni autoritari ("militarizzare" l'area come si fece con Acerra, altro oneroso fallimento della governance e delle visioni di futuro). Per ora resta deluso chi si aspetta dal governo parole ferme non verso l'autorità giudiziaria (che prende atto di una situazione fuori controllo) ma verso un'azienda che va richiamata alle sue responsabilità: non può cavarsela andandosene senza pagare il conto del suo costo sociale. Esistono strumenti coercitivi ma anche collaborativi (finanziari e non) per costringere l'Ilva a elaborare una strategia sicura e rapida nella direzione di un'uscita dal vicolo cieco in cui si è finiti solo perché non si sono volute fare scelte diverse ma economicamente più onerose.
Il minimo è che lo Stato dia garanzie ai lavoratori che rischiano la salute e ora pure il pane quotidiano. Ma deve dare anche garanzie alla generalità dei cittadini (operai e non) sull'abbattimento del rischio sanitario (in queste ore menzionato solo marginalmente nelle cronache, mentre in realtà è il nucleo della questione).
Serve un piano industriale serio, capace di ripensare Taranto e di posare fin da subito i primi mattoni di una nuova stagione; non serve, invece, l'allarmismo mediatico alimentato in queste ore sull'effetto domino occupazionale e produttivo di una sospensione dell'attività Ilva.
Negli ultimi cinque anni l'Italia ha perso circa 500 mila posti di lavoro, tuttavia, malgrado il vuoto politico, ne sono nati oltre mezzo milione in attività connesse con Internet, mentre nel 2012, secondo il rapporto di Unioncamere, il 38% (pari a 240 mila unità) di tutte le assunzioni di personale è nell'ambito della cosiddetta Green Economy e riguarda spesso la conversione in chiave ecosostenibile dei comparti produttivi tradizionali.