Dolomiti, una grave asimmetria istituzionale
Il governo intende archiviare le Province ordinarie: ora depotenziandole con il ddl promosso dal ministro degli Affari regionali, Graziano Delrio (Pd), poi cancellandole con una legge costituzionale. Alcune voci contestano l'assalto al sistema delle autonomie spiegando che si indebolirà il tessuto democratico e si produrranno maggiori costi finanziari, disfuzioni nei servizi locali e perdite di tutela nei territori svuotati di rappresentanza. Fra i critici, l'urbanista Edoardo Salzano, il presidente del Censis Giuseppe De Rita e i 44 giuristi che denunciano profili di incostituzionalità del ddl (che abolisce le elezioni provinciali).
Il governo intende archiviare le Province ordinarie: ora depotenziandole con il ddl promosso dal ministro degli Affari regionali, Graziano Delrio (Pd), poi cancellandole con una legge costituzionale. Alcune voci contestano l'assalto al sistema delle autonomie spiegando che si indebolirà il tessuto democratico e si produrranno maggiori costi finanziari, disfuzioni nei servizi locali e perdite di tutela nei territori svuotati di rappresentanza. Fra i critici, l'urbanista Edoardo Salzano, il presidente del Censis Giuseppe De Rita e i 44 giuristi che denunciano profili di incostituzionalità del ddl (che abolisce le elezioni provinciali).
Il paradigma governativo è più reazionario che riformista: l'operazione è calata dall'alto omologando l'eterogena realtà italiana, senza valutare specificità, bisogni e aspirazioni dei territori. Si asseconda un prurito demagogico «anticasta» individuando sbrigativamente il capro espiatorio nelle Province ordinarie (1,3% della spesa nazionale, quasi tutto per servizi utili) che certo vanno riformate, ma discutendone seriamente, non con furore giacobino.
Pochi giorni fa Delrio e il relatore di maggioranza del ddl, il parlamentare Pd bolzanino Gianclaudio Bressa, erano a Longarone, dove due mesi fa il premier Enrico Letta aveva rassicurato la platea bellunese dicendo che quest’area dolomitica, oggi priva di un ente (la Provincia è commissariata da oltre due anni) ha diritto a uno status «forte di autonomia», anche per un «riequilibrio istituzionale» rispetto ai territori confinanti.
Nel frattempo, però, il ddl Delrio accomunava le tre Province interamente montane (Belluno, Sondrio e Verbano-Cusio-Ossola), al destino funesto di tutte le altre. Grazie alla mobilitazione civile è maturato un emendamento, a firma del deputato Pd bellunese Roger Demenech, che avrebbe restituito loro una dignità democratica e funzionale. Anche quell’emendamento, però, è stato neutralizzato: è sparita nuovamente l’elezione diretta del presidente e del consiglio, resta solo un accenno alla specificità montana e a un eventuale trasferimento di competenze da parte delle Regioni. Nel caso bellunese, peraltro, l’autonomia è già stabilita dal nuovo Statuto della Regione Veneto, inapplicato da quasi due anni perché Venezia non trasferisce le competenze previste (dal turismo ai trasporti, dall’economia all’agricoltura).
Questa desertificazione istituzionale è prospettata da Delrio e Bressa come un passo avanti e sia l'on. Demenech sia Sergio Reolon, già presidente provinciale e oggi consigliere regionale Pd, confermano che l'arretramento in realtà, dato il contesto nazionale, va accolto come un progresso. Insomma, se sei affamato e ti tolgono il pane ma ti offrono un bicchier d'acqua, dovresti fingere di mangiare e pure con gusto e soddisfazione.
Delrio ha usato anche argomentazioni curiose: «Un'elezione di secondo grado non significa perdita di autorevolezza. Anche il presidente della Repubblica è designato così». Non c’è qualche differenza tra il garante dell’unità nazionale e i politici chiamati a responsabilità locali? Non è il minimo sindacale che costoro siano scelti dai cittadini e a essi rispondano?
Il ministro, già sindaco della padana e pianeggiante Reggio Emilia, ha riservato anche altre frecciate a un uditorio spazientito: «Sono convinto che questa provincia debba aspirare a un progetto autonomistico, però non si può chiedere autonomia e poi dire non siamo in grado di governarci da soli». Mi sfugge il senso della frase, forse si riferisce, stravolgendone il significato, alla reiterata denuncia di chi sostiene che senza una Provincia elettiva e competenze concrete non si può parlare seriamente di autogoverno: sarebbe prendersi in giro.
Infine, un irritato Delrio, ha assicurato ai montanari bellunesi che con la sua riforma potranno coordinare politiche utili alla loro specificità dolomitica, ma «con le regole presenti in tutta Italia: non sarete mai come Trento e Bolzano». Quel riformistico «mai» è un po' l'emblema del rispetto per le aspirazioni e le lotte dei territori. Se poi il ministro, forse anche in veste di ambasciatore, intendeva zittire così una platea di sindaci ostili, si sarà reso conto di avere sbagliato completamente registro. In ogni modo, quasi tutti i 69 Comuni bellunesi hanno condiviso una deliberazione – consegnata al governo – che invita a salvare e rafforzare l'ente intermedio. E il presidente di Confindustria, Gian Domenico Cappellaro ha tuonato: «Una Provincia senza un presidente e un consiglio eletti direttamente dai cittadini non è compatibile con l’autonomia. Il disegno di legge Delrio è irricevibile». Peccato per i bellunesi che a rappresentarli in Parlamento non ci sia un Cappellaro.
Il governo, tuttavia, non arretra davanti a nulla, e in difesa del ddl si è scaldato anche l’on Bressa, parlamentare di lungo corso, eletto e residente in Alto Adige ma negli anni Novanta sindaco di Belluno. Da quasi un ventennio Bressa invia ai suoi ex concittadini inviti alla calma e messaggi sul possibile autogoverno che verrà; ma non ha mai potuto annunciare risultati concreti, salvo ora spiegare nervosamente a una platea inquieta che va benissimo perdere la Provincia ordinaria e sostituirla con un castello di carte destinato, peraltro, a bruciare con l'annunciata cancellazione delle Province dalla Costituzione. Eppure anche il Pd bellunese e quello trentino avevano chiesto a Roma un assetto elettivo per la Provincia, il trasferimento delle competenze previste dal Veneto e l’avvio di una partnership fruttuosa, di un'alleanza alpina con l'area a statuto speciale. Una persistente asimmetria istituzionale, invece, ostacolerebbe la collaborazione alimentando una litigiosità dovuta al divario gigantesco fra i territori dolomitici, sia in termini di disponibilità finanziaria sia di strumenti di autogoverno.
Sorprende che di fronte a questo scenario non si levi la voce dissenziente di figure autorevoli, come Lorenzo Dellai, che teorizzano giustamente un’architettura democratica plasmata sulle caratteristiche e esigenze delle comunità.
E preoccupa che nella classe dirigente trentina si sia còlto, con plateale entusiasmo, solo un banale passaggio delle malcelate visioni neocentraliste espresse da Delrio, cioè questo: «Non credo che si debba lottare per togliere autonomia a Trento e Bolzano ma per avere più autonomia finanziaria ed economica nei territori». Quel riferimento provocatorio a una lotta antiautonomista che non esiste, credo alluda alle recenti proteste di politici e imprenditori bellunesi, perché mentre quella Provincia arretra Trento e Bolzano ottengono libertà di azione anche sui tributi locali. Uno sviluppo che allarga il divario istituzionale sulle Dolomiti ed è additato come potenziale strumento distorsivo della concorrenza. Non entro in questa querelle (ci sono buone ragioni da entrambe le parti) ma osservo che il colpevole sta a Roma e che invece di applaudirlo se dice qualcosa di empatico, Trento farebbe bene a sollecitarlo con forza per una soluzione sistemica e stabile. Una prima risposta, semplice e chiara, è l'esclusione di Belluno dalla riforma delle Province, per partire da questa base nella creazione di un sistema autonomistico in stretta relazione con il Trentino Alto Adige, che ne trarrebbe a sua volta giovamento. L'autonomia è un valore federalista e universalistico, altrimenti si riduce a greve egoismo territoriale.
Per la classe politica trentina sarebbe miope rinchiudersi nel particulare, confindando oggi in un governo amico, e non combattere i processi di desertificazione istituzionale e sociale nelle aree alpine circostanti che chiedono e offrono solidarietà. Se non contrastati, quei processi al ribasso non si fermeranno certo davanti ai confini istituzionali. E quel giorno ci sarà un ministro, non più amico, pronto a spiegare ai trentini che cedere sovranità è un progresso civile e che il sindaco del capoluogo può fare benissimo il presidente part-time della Provincia semiautonoma: in fondo avete esigenze come nel resto d’Italia, potete adoperare gli stessi strumenti e non illudetevi di cavarvela un’altra volta con la storia dell’Impero asburgico.