Il cognome materno e i tempi italiani
Alla fine degli anni Ottanta, come giovane cronista, ebbi l'occasione di occuparmi della querelle sull'attribuzione ai figli del cognome della madre.In altri Paesi europei questa era un'opzione già ampiamente consolidata nella legislazione. In Italia no.Erano da poco passati gli anni Settanta, un'epoca contraddastinta anche da significativi avanzamenti nell'impianto normativo nazionale in materia di parità di genere, a cominciare dalla storica riforma del diritto di famiglia (1975) e dalla legge Fortuna che introduceva il divorzio (1970) e che fu difesa con successo quattro anni più tardi nel celebre referendum voluto dalle forze conservatrici (Dc e Msi) per tentare di cancellare questo nuovo diritto delle coppie sposate in Italia.
Alla fine degli anni Ottanta, come giovane cronista, ebbi l'occasione di occuparmi della querelle sull'attribuzione ai figli del cognome della madre.
In altri Paesi europei questa era un'opzione già ampiamente consolidata nella legislazione. In Italia no.
Erano da poco passati gli anni Settanta, un'epoca contraddastinta anche da significativi avanzamenti nell'impianto normativo nazionale in materia di parità di genere, a cominciare dalla storica riforma del diritto di famiglia (1975) e dalla legge Fortuna che introduceva il divorzio (1970) e che fu difesa con successo quattro anni più tardi nel celebre referendum voluto dalle forze conservatrici (Dc e Msi) per tentare di cancellare questo nuovo diritto delle coppie sposate in Italia.
La questione della trasmissione del cognome materno rimase invece insoluta, cioè arrivarono gli anni Ottanta del riflusso politico e dell'edonismo reaganiano senza che la Repubblica fosse riuscita a riequilibrare le disposizioni anche in questo ambito delle relazioni di genere.
Da giovane cronisa, dicevo, me ne occupai intervistando due senatrici: l'una comunista cattolica, la compianta senatrice Giglia Tedesco Tatò; l'altra socialista, la sua collega Elena Marinucci. Entrambe le parlamentari, figure note e apprezzate del mondo politico nazionale, stavano lavorando a un provvedimento che aveva l'obiettivo di allineare l'Italia ai molti Paesi europei nei quali i coniugi possono scegliere quale dei due cognomi assegnare ai neonati. L'ostacolo principale e apparentemente insormontabile, mi spiegarono le due senatrici, era banale: la preponderanza di maschi fra gli eletti in Parlamento. Impossibile, dunque, trovare una maggioranza a favore della riforma, semplicemente perché gli uomini non intendevano indebolire il ruolo maschile.
Da allora sono passati oltre due decenni ma su questo, come purtroppo su molti altri fronti, la politica nazionale appare cristallizzata, incapace o quasi di produrre riforme profonde e attese dalla società (fra le trasformazioni significative che si ricordano nell'ultimo ventennio c'è il sacrosanto divieto di fumo nel locali pubblici e poco altro di realmente distintivo).
Ora, con la sentenza della Corte europea dei diritti umani che condanna l'Italia per aver negato a una coppia la possibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre, il Parlamento è richiamato all'obbligo di rimediare tramite una specifica riforma legislativa.
Riusciranno i nostri eroi, fra qualche crudele sciabolata alla democrazia territoriale, le consuete scissioni partitiche e gli avvitamenti sulla legge elettorale?
[p. s. Ieri il consiglio dei ministri ha dato il consenso a un ddl che modifica l'articolo 143-bis del Codice civile.
La formulazione partorita dal governo è patetica e reitera la discriminazione di genere: "Il figlio assume il cognome del padre ovvero, in caso di accordo tra i genitori risultante dalla dichiarazione di nascita, quello della madre o quello di entrambi i genitori"]