Senato, Province e altri piccoli problemi di democrazia
Si avverte un eccesso di improvvisazione e un deficit di ragionamento nel processo che sta spogliando il Paese di alcuni organi rappresentativi della volontà popolare sostituendoli con istituzioni non scelte dagli elettori.Il caso delle Province ordinarie è emblematico: il governo centrale (prima Monti, poi Letta e ora Renzi) ne ha sospeso il rinnovo democratico degli organi, commissariandoli, perché c'è l'intenzione di riformare (si definisce "abolizione" ma giocoforza sarà tutt'altro, perché parliamo di enti che svolgono funzioni socialmente rilevanti e indivisibili).
Si avverte un eccesso di improvvisazione e un deficit di ragionamento nel processo che sta spogliando il Paese di alcuni organi rappresentativi della volontà popolare sostituendoli con istituzioni non scelte dagli elettori.
Il caso delle Province ordinarie è emblematico: il governo centrale (prima Monti, poi Letta e ora Renzi) ne ha sospeso il rinnovo democratico degli organi, commissariandoli, perché c'è l'intenzione di riformare (si definisce "abolizione" ma giocoforza sarà tutt'altro, perché parliamo di enti che svolgono funzioni socialmente rilevanti e indivisibili).
Le successive obiezioni della Corte costituzionale (sentenza del luglio 2013) hanno indotto poi l'esecutivo a maggiore prudenza sulle Province, dunque possiamo escludere che si ritenga di poter sospendere per decisione governativa anche il rinnovo nel Senato, qualora - per ipotesi - le Camere fossero sciolte prima della turboriforma di palazzo Madama.
Comunque sia, la sensazione sgradevole, in questo scapicollarsi per ridurre gli spazi di partecipazione democratica, è che alla riflessione sui contenuti e sull'utilità degli organi costituzionali si antepongano le scorciatoie del consenso elettorale assicurate dalla demagogia populista cosiddetta "anticasta" che rischia davvero di rivelarsi un boomerang in termini di peso specifico di ogni cittadino nella distribuzione democratica delle quote di potere.
I vuoti lasciati dalle istituzioni da cancellare si dovrebbero riempire, infatti, secondo la vulgata maggioritaria, con strumenti non più controllabili direttamente dagli elettori: le Province desertificate oppure affidate ai sindaci dei capoluoghi (con la nascita delle ineffabili città metropolitane), il Senato un non meglio precisato luogo di ritrovo per sindaci, presidenti di Regioni e magari anche rappresentanti delle categorie economiche.
Uno scenario da incubo per chi ritiene che uno dei mali principali della politica e della democrazia sia da anni la crisi crescente della rappresentanza, la delega troppo ampia e poco controllabile affidata dagli elettori a una "casta" di eletti che proprio in virtù di questa distanza è riuscita a mettere in atto anche comportamenti antisociali, nonché a dedicare buona parte delle sue energie all'autoconservazione grassa.
Ridurre ulteriormente la possibilità dei cittadini di interagire e controllare chi occupa ruoli istituzionali va esattamente nella direzione opposta rispetto a un'idea di ricostruzione di dinamiche decisionali e di forme rappresentative più aderenti a un'interpretazione non elitaria della democrazia occidentale. O forse l'obiettivo è preparare il terreno per anacronistiche riforme di stampo presidenzialista?
Il Senato, che peraltro - come noto - coordina le modalità di lavoro con la Camera per ottimizzare i tempi malgrado la doppia lettura, ha una ragione d'essere nella necessità di approfondire e eventualmente bilanciare, in un confronto dialettico, le leggi varate dai deputati (e viceversa). Si può senz'altro discuterne, chiedersi se gli spettri autoritari che preoccupavano i costituenti siano o meno una variabile di cui tener conto (in chiave ermeneutica) anche oggi, epoca in cui non mancano certo forme di condizionamento lobbistico della politica. Ma, appunto, discutiamone nel merito con un minimo di serenità e partecipazione, evitando le sfide contro il cronometro e le ricette banalizzanti.
Chissà, potremmo anche scoprire che il Senato può rivelarsi un costo produttivo e che per fluidificare l'attività legislativa bastano correttivi minori (quando i governi hanno fretta riescono già a produrre leggi nel volgere di una nottata). A breve avremo la possibilità di una verifica empirica, quando la pessima legge elettorale votata dalla Camera dei deputati approderà a palazzo Madama, dove a quanto pare potrebbe essere un poco migliorata.
L'impressione è che in questa foga abolizionista si utilizzino selettivamente le ragioni dell'efficienza e del risparmio da un lato per favorire i Comuni nel confronto con Regioni (a loro volta nel mirino di una riforma riduzionista) e Province, dall'altro per deviare l'attenzione dal nodo centrale della partecipazione informata dei cittadini alle decisioni che riguardano la loro esistenza.
Se quest'ultima fosse, al contrario, la prospettiva, la questione non sarebbe la quantità e l'affollamento dei luoghi della democrazia, bensì il loro costo (si può tranquillamente essere un eletto e guadagnare l'equivalente di uno stipendio medio), la rotazione rapida delle persone presenti nelle istituzioni (limiti al numero dei mandati) e la loro interazione cogente con la generalità dei cittadini (le forme della consultazione e della decisione diretta popolare sono drammaticamente deboli).
Non entusiasma, in questo contesto, che si perpetui il modello ultraventennale del leaderismo da talk-show, né che si giustifichi l'ascesa alla guida del governo del Paese con richiami a competizioni elettorali svolte dentro un singolo partito.