«Non dirmi che hai paura»: il lato umano dell’immigrazione
«Non dirmi che hai paura»
In questi giorni di mare mi è capitato tra le mani “Non dirmi che hai paura”, romanzo scritto da Giuseppe Catozzella. L’ho divorato in poco meno di tre ore e voglio raccontarvi il perché. Questo libro racconta la storia di Samia Yusuf Omar, velocista Somala classe 1991 che riuscì a partecipare alle Olimpiadi di Pechino del 2008 appena diciassettenne. Perché parlo al passato? Perché Samia è morta nel mare al largo di Lampedusa, in seguito all’incidente del barcone su cui lei e decine di altre persone viaggiavano in cerca di un futuro migliore.
Il libro non mi ha colpito solo perché si tratta di una storia di sport con un chiaro riferimento al tema immigrazione e alle tragedie di cui sentiamo parlare sempre più frequentemente durante i telegiornali. Mi ha colpito soprattutto per il modo in cui la storia di Samia è raccontata, in particolar modo nella parte relativa a quello che viene chiamato “Il Viaggio”. Con questo termine si fa ovviamente riferimento al tragitto che migliaia di persone intraprendono, affidandosi a criminali per tentare di fuggire da guerre, povertà, dittature o fanatismi, alla (semplice) ricerca di un futuro migliore.
Roberto Saviano l’ha definito un libro “necessario”. E anche a me piace pensarla così. Finita la lettura del romanzo, ho avvertito delle emozioni contrastanti, tra cui anche rabbia e, in un certo senso, incredulità. Queste ultime due però non erano rivolte tanto alla storia che avevo letto, quanto a ciò che vedo tutti giorni spulciando i social network, tra i commenti ad alcuni post o tra le pagine di qualche politico (o presunto tale). La storia di Samia è solo un esempio delle motivazioni che portano una persona ad affrontare un viaggio che può durare anni e che potrebbe non arrivare mai alla sua meta. Leggendo questo romanzo (forse) molte persone potrebbero capire ciò che sta dietro ai numerosi sbarchi a cui assistiamo. Mi viene da sorridere amaramente quando sento parlare di “invasione” o di “persone che arrivano solo per delinquere o rubare il lavoro”. Chi arriva tramite mare, chi affronta un viaggio che è tutta un’incognita e per cui spesso spende tutti i propri risparmi non è un delinquente, ma una persona, un essere umano, che va aiutato. Questo non significa agevolare l’immigrazione clandestina o permettere che i trafficanti di uomini (e spesso le mafie) continuino a guadagnare sulla disperazione delle persone. Ma significa che abbiamo il dovere di cercare di aiutare chi arriva da una situazione in cui ciascuno di noi non vorrebbe mai trovarsi. Significa potenziare gli strumenti di integrazione all’interno delle nostre comunità, accordarsi a livello europeo per una miglior gestione dei flussi migratori, ma anche saper cogliere noi stessi le opportunità che l’immigrazione può portare.
Non voglio qua proporre ricette o strade da seguire per la risoluzione di questo problema. Non è il mio campo e non ne ho le competenze necessarie. Quello che vorrei far passare è il lato umano della questione immigrazione: il cercare di capire perché queste persone sbarcano sulle nostre coste, che storie hanno alle spalle, cosa si può fare per far sì che riescano a costruirsi anche loro una vita dignitosa. E questo romanzo, a parer mio, permette di avere una visione più ampia e allo stesso tempo approfondita su tale questione. Vi invito quindi a leggerlo, nella speranza che tale appello giunga anche alle orecchie di qualche esponente politico che, prima di parlare pubblicamente, dovrebbe almeno aprire qualche libro in più.