Spesa pubblica, tagli inesistenti
Spesa pubblica, tagli inesistenti
Il debito pubblico italiano è salito ancora. Ieri Eurostat ha reso noto che nel secondo trimestre 2015 ha raggiunto il 136% del Pil (il valore di quanto prodotto dal Paese in un anno), superando i 2.204 miliardi di euro.
In realtà ieri sera il debito era già lievitato a quota 2.271 miliardi di euro, toccando la bella cifra di 36.538 euro a testa per ciascun italiano, neonati e centenari compresi. La montagna del nostro debito pubblico, tra i più alti del mondo, il più alto d'Europa dopo la Grecia, sembra un qualcosa di inarrestabile, a cui nessun governo riesce (o vuole) porvi mano. Nemmeno Matteo Renzi sembra volerlo, se guardiamo nel dettaglio la legge di Stabilità approvata settimana scorso dal consiglio dei ministri e prossima al dibattito parlamentare. I tagli alla spesa pubblica, che potrebbero dare un contributo significativo alla riduzione del debito, e soprattutto potrebbero far scendere la spesa per interessi che continua ad alimentare il debito stesso, sono pressoché quasi assenti. Il premier parla di 5,8 miliardi di spending review, ne aveva promessi 10 a inizio d'anno, il commissario straordinario Cottarelli ne aveva ipotizzati 34 per il 2016. Se pensiamo poi che, di questi 5,8 miliardi la gran parte sono sterilizzati da 3,7 miliardi di nuove spese, si capisce che di spending review il governo Renzi ne stia facendo veramente poca.
Eppure solo incidendo sulla spesa pubblica si possono intaccare e risparmiare quei 70-80 miliardi che ogni anno noi italiani paghiamo solo di interessi, senza ridurre di un centesimo l'ammontare complessivo del debito. Sborsiamo tre volte il valore di una Finanziaria, quasi l'ammontare del costo della Sanità pubblica, specie se consideriamo quanto ci pesa se sale lo spread (siamo arrivati a 100 miliardi l'anno, fra il 2011 e il 2012). Non ci sarà svolta nel Paese, quindi, finché non si metterà mano al debito (cioè alla spesa pubblica), determinando un'inversione di tendenza sostanziale che porti negli anni a moltiplicare l'effetto positivo riducendo l'ammontare degli interessi. Certo, la legge di Stabilità 2016 - Matteo Renzi l'ha detto e ripetuto in tutte le salse - ha un obiettivo espansivo. La timida ripresina non è consolidata, e occorre sostenere la crescita. Per questo il governo ha preferito ridurre le tasse (o per lo meno evitare che aumentino, visto che gravava sulla testa degli italiani un possibile aumento di Iva e imposte varie per 16 miliardi). E si è lanciato in misure dubbie, come l'aumento del tetto massimo del contante, volto a far girare soldi e far crescere i consumi, anche se questo non va nella direzione di una sistematica lotta all'evasione e tracciabilità del denaro.
Senza dubbio il presidente del Consiglio ha anche altri obiettivi non dichiarati: far muovere l'economia, dare ossigeno a famiglie e imprese prostrate dalla crisi, perché possa crescere il sostegno al processo di riforme avviate. E poi a primavera ci sono le elezioni comunali, e se gli italiani stanno meglio, è facile pensare che il voto di protesta in parte si assorba. Se pure la crescita oggi è la priorità dell'Italia, e solo tornando ad avere soldi in tasca gli italiani potranno riprendere fiducia nel domani, è un errore grave pensare che la barca del Paese si raddrizzi soltanto tornando a spendere. Occorre anche metter mano all'altra metà dei nostri problemi, ossia l'aggrovigliata e paludosa melassa della spesa pubblica, delle partecipate, delle aziende municipalizzate, della strabordante e inefficiente Pubblica amministrazione (in certe regioni come la Sicilia non si sa nemmeno quanti sono i dipendenti pubblici, e soprattutto i dirigenti).
In Italia c'è ancora troppo pubblico (cioè troppa politica) nell'economia, nella gestione, nei monopoli, nell'erogazione di servizi. Paradigmatica è la notizia sui giornali di ieri che il sindaco dimissionario di Roma due giorni prima di dimettersi si è assicurato per danni legati all'incarico con la compagnia assicurativa del Comune. A parte la faccia tosta di assicurarsi due giorni prima di dimettersi, che senso ha che il Comune di Roma abbia in proprietà un'assicurazione? E se Marino sarà costretto a pagare i danni al suo Comune, perché deve pagare il Comune stesso con la sua società assicurativa? Di tali mostruosità giuridiche, economiche e politiche l'Italia è piena (anche la nostra Provincia autonoma non scherza in fatto di società pubbliche e partecipate varie). Se non si avrà il coraggio di incidere anche lì, l'Italia non potrà rimettersi in carreggiata. Questo è il vero lato debole della Finanziaria 2016 di Renzi. Altro che le fregnacce ideologiche della sinistra Pd, se si tratta di una manovra di sinistra o di destra, e se abbassare le tasse è bello o brutto (o anticostituzionale, come ha sparato Bersani, tra le risate generali dei costituzionalisti).
Il limite più forte di questa legge di Stabilità è la mancanza di coraggio nell'aggredire la spesa pubblica, nel rivedere le uscite, nell'allocare meglio le risorse portando risparmi e vantaggi nell'erogazione dei servizi. La debolezza dell'impianto, che comunque segna un cambio di rotta su molti fronti importanti a cominciare finalmente da quello delle tasse, è proprio nel non aver sfidato con più risolutezza lobby, apparati, potentati politici e ministeriali, rendite diffuse e ingiustificabili nascoste dentro la giungla delle detrazioni e deduzioni fiscali. Negli ultimi anni abbiamo visto passare, uno dopo l'altro, Piero Giarda, Enrico Bondi, Carlo Cottarelli, Roberto Perotti, fior di economisti, manager e servitori dello Stato, che hanno indicato voci di spesa per decine di miliardi di euro, che si potrebbero tagliare senza che nessuno muoia, eppure non si è fatto nulla. Sono rimaste grida inascoltate nel deserto.
È un cattivo segnale questo, quasi che di fronte a certe resistenze anche Renzi risulti impotente. Ed è ancor peggiore perché non siamo usciti dalla crisi e non abbiamo nemmeno intaccato di un centesimo il debito, e già si parla di allentare le maglie della spesa pensionistica. Che la riforma Fornero non abbia fatto piacere a nessuno, è risaputo. Ma tornare indietro scaricando gli eventuali costi sulle casse pubbliche, facendo passare l'idea che si può andare in pensione anche con meno anni di contributi percependo la stessa cifra, è irresponsabile quanto suicida. Vorrebbe dire scaricare nuovamente sulle generazioni future il costo dell'operazione. Come pure far credere che gli esodati a 50-55 anni che hanno perso il lavoro possono andare in pensione, e non invece essere aiutati a trovare un nuovo lavoro.
Forse gli italiani (e chi li governa) hanno già dimenticato i rischi di bancarotta corsi nel 2011, e la cura lacrime e sangue che si è dovuto applicare di fronte ad una spesa pubblica fuori controllo. Forse non si tiene sufficientemente a mente che il debito noi l'avremmo già pagato ampiamente in questi vent'anni, se non fosse per gli interessi che continuano a maturare. Solo incidendo su quelli, riducendo progressivamente il debito, ci libereremo (e libereremo i nostri figli) da questo mostro di Loch Ness, l'enorme leviatano del debito, che distrugge ogni anno 70-80 miliardi della nostra ricchezza prodotta, in uno svenamento senza fine.
Forse se incideremo seriamente sulla spesa pubblica, con tagli a doppia cifra, saremo più credibili anche verso l'Unione europea, la Banca centrale, Draghi e la Merkel, nel chiedere una rinegoziazione del debito, o per lo meno degli interessi, arrivando ai fatidici eurobond. Ma se prima non dimostriamo di saper tagliare ciò che può essere tagliato, nessuno in Europa ci regalerà scorciatoie.
p.giovanetti@ladige.it
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