Le banche in crisi e i rischi in Trentino
La vicenda delle quattro banche fallite e delle loro obbligazioni subordinate è oggetto, come naturale, di grande attenzione da parte della stampa e anche da parte di una certa politica, per la quale qualsiasi pretesto va bene per mettersi in mostra e per parlare alla pancia e non alla testa delle persone.
Le quattro banche portate alla ribalta sono solo alcune delle banche italiane in ambasce. Tanto per non andare troppo lontani, pensiamo alla Banca Popolare di Vicenza e a Veneto Banca, da anni chiacchierate e sotto la lente attenta della Banca d'Italia, ma anche ad alcune banche di credito cooperativo.
Dovendo cercare di spiegare che cosa è accaduto, direi che, in estrema sintesi, queste quattro banche si sono finanziate emettendo obbligazioni a rischio maggiore rispetto a quelle ordinarie, in quanto in caso di default della banca, il loro rimborso è messo in coda a quello di tutti gli altri creditori.
Ecco quindi che gli obbligazionisti, assieme agli azionisti, si trovano ora in mano carta straccia e la cosa non è certo piacevole. Queste emissioni partono con la crisi del debito sovrano del 2011, che ha prosciugato il finanziamento tra banche ed il mercato dei capitali in genere e ha indotto quindi le banche, soprattutto quelle regionali e territoriali, a raccogliere denaro a medio/ lungo termine emettendo titoli contenenti di fatto la partecipazione al rischio di impresa.
I rischi d'impresa, sono talvolta accolti dal cliente in virtù di un rendimento maggiore e, se la scelta è consapevole, si potrebbe tranquillamente affermare che è un rischio cercato.
Ora è compito della magistratura appurare responsabilità e ruolo delle varie persone coinvolte. A mio avviso il Governo ha scelto, alla luce dei vincoli normativi e politici che dettano le regole del gioco, la strada del male minore salvando i correntisti e gli obbligazionisti «ordinari».
L'evento è comunque straordinario, in quanto è dagli anni '20 del secolo scorso che non si verifica una situazione del genere, nemmeno con il Banco Ambrosiano nel 1982, dove a rimetterci furono solo gli azionisti, che poi recuperarono buona parte del loro capitale con le azioni del Nuovo Banco Ambrosiano, operazione che diede vita all'attuale Intesa San Paolo.
Guardando da vicino, il gioco è sempre il medesimo: si emettono titoli ad alto rischio e questi finiscono in mani spesso ignare, consigliate a volte in buona fede, a volte con malizia, giocando sulla loro fiducia. In base a quello che si legge sui giornali, l'orientamento degli organismi europei è stato molto rigoroso nel bloccare un intervento pubblico a tutela di tutti i creditori. Si è percorsa pertanto l'unica strada possibile: attraverso la Banca d'Italia ed il sistema bancario si sono salvati i correntisti e create nuove banche, le quali sono ripartite alleggerite dei problemi delle vecchie e per le quali ora va trovato un compratore.
Mi preme però provare a far guardare la vicenda da un altro punto di vista, per cercare di capire se da essa potrà nascere un contesto migliore dove siano più solidi i rapporti tra banche e comunità.
Innanzitutto due parole sul «mestiere» della banca che è, sulla carta, molto semplice: da un lato si indebita (depositi, obbligazioni) e raccoglie risorse con il capitale sociale (azioni) dall'altro impiega queste risorse concedendo credito. Lavorando solo sui depositi, si avrebbe un disallineamento forte tra la raccolta, che è a vista (in qualunque momento posso prelevare i miei soldi) e gli impieghi, che sono a medio e lungo termine, ad esempio un mutuo. Ecco allora che le obbligazioni servono per bilanciare i due profili temporali, assieme ai mezzi propri, che rappresentano anche un elemento di garanzia.
In questi anni tutte le banche sono state tirate per la giacca sul lato degli impieghi, chiedendo di finanziare imprese, alcune sane, alcune malate, altre terminali. Al momento le banche italiane hanno crediti in sofferenza (che fanno fatica a recuperare o che non recupereranno mai) per circa 350 miliardi di euro. Si può parlare di errori delle banche, ma si tratta comunque di risorse che le banche hanno raccolto e che hanno messo a disposizione di imprese e famiglie, che non le hanno restituite, spesso per la crisi, talvolta per errori imprenditoriali.
Queste perdite sono state sinora poste a carico degli azionisti: basti pensare ai cospicui aumenti di tutte le grandi banche in questi ultimi anni. In realtà ora il gioco collega direttamente attivi e passivi della banca: se essa non recupera i propri crediti, è a rischio la sua capacità di far fronte ai propri debiti, cosa che prima veniva garantita da una rete di protezione interna al sistema bancario italiano. Le nuove norme europee, quelle che contengono il cosiddetto bail in, renderanno ciò ancora più evidente, in quanto, a fronte di un fallimento della banca, saranno a rischio anche i depositi sopra ai 100.000 euro, per cui un impiego malsano mette a rischio anche il correntista.
Non è poi un caso che il problema delle quattro banche riguardi istituti regionali, banche popolari e non le grandi banche nazionali. Queste hanno una governance, controlli, azionisti, analisti che minuto per minuto le monitorano e, salvo casi particolari, ci sono numerosi argini formali e informali che impediscono certe situazioni. Sono società per azioni, con azionisti strutturati, che sono ovviamente interessati a non mettere a rischio il proprio capitale e, magari, avere anche un rendimento.
Nelle banche popolari, territoriali, di credito cooperativo, si ha invece una governance differente, forse più debole, dove spesso gli organi di governo lavorano non per il bene della banca, ma per il consenso e il mantenimento del potere e dove la contiguità territoriale rende spesso difficile respingere talune richieste. Intendiamoci, anche il presidente della grande banca cercherà di mantenere il proprio incarico, ma è sottoposto, come accennato, a ben altri controlli. L'essere nel CdA di una banca territoriale, o esserne il direttore, rappresenta un potere non piccolo, dato il ruolo che si ha nel concedere i finanziamenti a imprese e famiglie. È vero, le banche territoriali, come si dice, hanno finanziato l'economia in questi anni, ma talvolta hanno anche finanziato operazioni deboli, mettendo a repentaglio, come nel caso delle famose quattro banche, coloro che hanno affidato i loro risparmi alla banca.
Il Governo è intervenuto recentemente sulle regole di governo delle banche popolari e ora sta mettendo mano alle banche di credito cooperativo, in quanto il vero punto debole è, anche a mio avviso, proprio questo. Il socio avrebbe tutti gli elementi per accorgersi che qualcosa non va però, affinché ciò succeda, sarebbe necessario avere capacità di lettura dei bilanci, della finanza e dell'economia non banali, che non tutti hanno. La partecipazione del socio all'assemblea inoltre, anche nelle nostre casse rurali, è spesso orientata alla qualità del pranzo e dell'omaggio e chi fa domande viene considerato il rompiscatole di turno: «Domande? Nessuna? Bene, allora andiamo a pranzo e ricordatevi di ritirare l'omaggio...».
Il primo livello di controllo è quello del collegio sindacale, anche questo è diretta espressione della comunità di riferimento. In Trentino, inoltre, il livello della revisione cooperativa risente del fatto che è tutta interna al movimento cooperativo, con il rischio sempre presente di conflitto di interessi, pur a fronte di una grande professionalità dei revisori.
Tutto o quasi è basato su rapporti fiduciari e di relazione, ma l'economia non può essere solo fiduciaria. Essa deve essere basata su regole che prescindono dalle persone. Queste regole dovrebbero garantire innanzitutto la competenza e non la fedeltà, e impedire poi le cariche «a vita». Il tetto ai mandati è fondamentale proprio per mantenersi distaccati e quindi rigorosi: sono quindi a mio parere opportuni un solo mandato da consigliere e uno, massimo due, da presidente, dopodiché si deve necessariamente lasciare il posto ad altri.
È chiaro che nel contesto attuale dire dei no in un ambito ristretto di comunità è scomodo; è molto più semplice assecondare molte di quelle operazioni che le grandi banche non hanno finanziato in questi anni, ma alle quali è opportuno dire di sì se si vuole essere rieletti. Vi è poi tutta la partita delle sponsorizzazioni, che sono spesso viste proprio come strumento di gestione del consenso, come accaduto anche in MPS e nelle quattro banche oggetto di queste considerazioni.
Il socio quindi, non partecipa alla vita della banca, se non nel momento ricreativo, se così si può azzardare a dire. Innanzitutto si fida, spesso in perfetta buona fede, poi è convinto, se le cose dovessero andare male, di non rimetterci. Il valore della sua quota sociale è spesso minimo, quasi simbolico e questo affievolisce l'attenzione e il controllo che potrebbe e dovrebbe esercitare. In realtà, allo stato attuale, il socio rischia e rischierà: per ora il capitale e le obbligazioni subordinate e domani potrebbe rischiare anche i depositi. Questa relazione fiduciaria determina porta ad un'asimmetria informativa tale che, quando esplodono i problemi, si crea stupore e panico e si cerca di mettere il cerino in mano allo Stato, all'Europa, alle banche.
Quella fiducia che serve per essere eletti viene progressivamente tradita nel corso del tempo, complici controlli laschi e autoreferenziali e la supposizione di essere indispensabili e quindi sentirsi autorizzati a tutto. È importante però ricordare che le banche, soprattutto quelle di comunità, non sono entità astratte e malvage; sono fatte dai soci e sono dei soci, non degli amministratori, anche se sono lì magari da vent'anni, peraltro sempre eletti all'unanimità.
Il capitale sociale è sì basato sulla relazione, ma la relazione deve essere accompagnata anche da un vigoroso controllo e da un bilanciamento dei poteri. La partecipazione attiva dei soci deve essere puntuale e soprattutto vista come un sano e virtuoso stimolo a fare meglio, non come qualcosa da trattare con fastidio. Il coinvolgimento del socio deve essere alimentato ed accompagnato da una gestione trasparente, da modelli di accountability adeguati ed efficaci, in grado di consolidare una fiducia basata sul commitment e non sulla relazione (o sullo speck o la macchina del caffé donati in assemblea).
Nel breve periodo la fiducia cieca forse funziona, ma nel lungo è quanto di peggio si possa fare per distruggere quel capitale sociale che dovrebbe rappresentare la vera energia delle banche di comunità.