Italiani in Libia, la scelta giusta

Italiani in Libia, la scelta giusta

di Gianni Bonvicini

È giusto che l'Italia si impegni direttamente nel conflitto contro l'Isis intorno a Sirte? Fino a che punto ci si deve spingere? Più in generale, quale ruolo dobbiamo giocare in Libia?  Intorno a questi interrogativi si sta sviluppando, tanto per cambiare, una provincialissima e strumentale polemica dell'opposizione, guidata dai Cinque Stelle, nei confronti del governo. I grillini sostengono infatti che è gravissimo scoprire improvvisamente che l'Italia è militarmente presente in Libia. A parte il fatto che nel febbraio scorso il parlamento autorizzava il governo a condurre missioni di sostegno alla lotta contro l'Isis, utilizzando risorse finanziarie ed umane anche al di fuori del nostro territorio, oggi sarebbe invece il caso di concentrarsi sulla sostanza della faccenda. E la sostanza è che la Libia costituisce un interesse di vitale importanza per l'Italia. Le ragioni sono almeno tre.

  • La prima è che bisogna in qualche modo bloccare il traffico di clandestini che attraversano il Mediterraneo dalle coste libiche.
  • La seconda è la necessità di sconfiggere quella parte dell'Isis che si è insediato proprio a Sirte, a poche centinaia di miglia dai nostri confini meridionali.
  • La terza è l'esigenza di proteggere anche gli interessi petroliferi del nostro paese in Libia, ove l'estrazione e il trasposto di gas nelle pipeline dell'Eni conta per il 20% delle nostre importazioni.

 

Se queste sono le più che valide ragioni per assumere delle responsabilità dirette in Libia, il passo successivo è di capire come affrontare il problema. Già da tempo, proprio in base al ragionamento appena fatto, il governo Renzi dichiarava, con una certa dose di protagonismo, la propria volontà di prendere il comando di una coalizione di stati pronti a tentare di stabilizzare la situazione politica in Libia, condizione primaria per risolvere i problemi che ci toccavano così da vicino. Ma poi prudentemente legava questa proposta a tre condizioni: la prima era la presenza di un governo di unità nazionale al posto dei due, Tripoli e Bengasi, nati dalle faide interne del dopo-Gheddafi; la seconda una richiesta di intervento da parte di quello stesso governo; la terza l'autorizzazione da parte dell'Onu di una missione militare volta a sostenere il governo libico.

La prima condizione, la costituzione del governo di unità nazionale guidato da Fayez al Serraj, si è verificata il 17 dicembre del 2015 sulla base di un accordo fra tutte le parti in lotta e sotto la regia delle Nazioni Unite: si tratta certamente di un governo del tutto precario, ma che in ogni caso rappresenta agli occhi della Comunità internazionale l'interlocutore privilegiato. La seconda condizione si è manifestata circa un mese fa con la richiesta di al Serraj agli Stati Uniti e agli altri paesi volonterosi di intervenire militarmente per aiutare le milizie fedeli al nuovo premier a riconquistare Sirte nelle mani dei terroristi dell'Isis. Di qui la decisione americana di iniziare bombardamenti mirati sul quartiere generale del sedicente Stato Islamico. Per una volta sembra che questa tattica possa dare frutti positivi. Il coordinamento fra droni e caccia americani e milizie libiche sul terreno, pronte ad approfittare dello sbandamento dei terroristi, ha permesso di liberare una buona parte della città.

Certamente manca all'appello la terza condizione e cioè la decisione del Consiglio di sicurezza di autorizzare una missione militare il Libia. Ma per ottenere ciò bisognerebbe superare il veto di Mosca, che di questi tempi non vuole davvero fare alcun favore all'Occidente e in particolare a Washington. L'Italia tuttavia non poteva stare ad aspettare che Putin ed Obama si mettessero d'accordo; ma soprattutto non poteva aspettare il premier libico al Serraj, che proprio dalla eventuale sconfitta dell'Isis potrebbe ottenere quella legittimazione politica che ancora manca al suo governo.

È del tutto evidente che all'Italia convenga rafforzare al Serraj e per farlo senza violare i limiti del decreto missioni di febbraio il governo Renzi si è mosso con notevole prudenza e tempismo. Ha previsto la possibilità di attivare le cosiddette missioni «coperte», cioè l'invio nelle retrovie delle milizie libiche di uomini scelti in funzione di supporto e intelligence; in secondo luogo ha inquadrato questo personale nelle file dei nostri servizi segreti sia per mantenere il comando dell'operazione nelle mani di Palazzo Chigi che per non dare l'avvio a una vera e propria missione militare; la terza iniziativa è diplomatico-politica con l'annuncio di riaprire nei prossimi giorni la nostra ambasciata a Tripoli, mandando con ciò un messaggio di fiducia al nuovo governo libico. In più, proprio a sottolineare il carattere politico-umanitario della decisione, l'Italia fornirà i mezzi sanitari e il personale medico per curare i combattenti libici impegnati a eliminare la minaccia dell'Isis.

Una strategia di questo tipo dimostra la priorità politica e l'interesse nazionale che Roma attribuisce al raggiungimento di una certa stabilità nel paese confinante, stabilità necessaria per tentare di risolvere i tre problemi sopra ricordati relativi all'immigrazione, terrorismo e interessi economici del paese. Ci si aspetterebbe da parte dell'intero arco di forze politiche italiane un momento di pausa e riflessione nella quotidiana e spesso vacua polemica politica. Qui sono in gioco gli interessi di tutti noi, non di una sola parte partitica.

Certo, queste decisioni portano con sé inevitabilmente un certo grado di rischio. In particolare si possono temere atti terroristici sul nostro territorio da parte dei sopravvissuti dell'Isis. Eventualità da mettere nel conto. Ma proprio per questo occorrerebbe in questo momento una grande unità nel paese. Le divisioni interne non fanno altro che sollecitare e favorire attacchi esterni. D'altronde l'esperienza di questi ultimi mesi ci ha dimostrato che non è con l'immobilismo né con la chiusure dei confini che ci si difende dal terrorismo. Occorre invece contribuire nei fatti a distruggere alla radice le milizie dei fanatici che ci minacciano, non con ritorsioni puramente militari, ma con una strategia complessa fatta di operazioni di intelligence, di sostegno politico e umanitario, di addestramento delle milizie amiche libiche e di iniziative diplomatiche. Sembra essere questo il tracciato di una buona politica da sostenere tutti assieme.

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