Leggono, leggono lassù sulla collina
In settant’anni, oltre mezzo milione di copie vendute, in Italia. Un sacco, un record, per un libro di poesie. Di un avvocato della provincia americana che leggeva il greco e tentò invano di vivere di letteratura, sfiorò il giornalismo e morì povero.
Forse solo un avvocato di provincia - pescatore di confidenze come il prete, il giornalista e il medico -, solo un avvocato che nel piccolo porto di un tribunale di provincia vede spiaggiarsi, dilavate e sporche d’alghe sulla battigia, le vite sbagliate degli altri, conosce le miserie della gente qualsiasi: quella che vive, soffre sospira mastica e sputa, di rado è felice, trova un lavoro e ci vive più o meno bene, si sposa o no, pianta un albero e lo vede seccato, costruisce una casa e la perde in un terremoto o un’inondazione, fa figli o no, li trova e li perde, e un giorno o l’altro muore di qualcosa. In solitudine, di solito. E non sempre con la luce dei beati già negli occhi. Imprecando e maledicendo, spesso, la sorte più ingrata che benevola.
Edgar Lee Masters (1869-1950) scrisse gli epitaffi dell’Antologia di Spoon River un secolo fa. Prima edizione nel 1915, seconda ampliata un anno dopo: e così in questi giorni, a San Miniato e altrove, si è celebrato il centenario di un libro che in Italia non è mai invecchiato, anche grazie alla sua traduzione in musica scritta e cantata da Fabrizio De André in un album monografico del 1971, «Non al denaro non all’amore né al cielo».
Oltre ai personaggi lì cantati con la grazia aggiuntiva delle rime che non ci sono nell’originale - il suonatore Jones, il matto, il malato di cuore... - decine e decine di vite sono riassunte nell’Antologia, in poche righe più spesso sarcastiche e amare, che dolenti. Come quando un marito e una moglie si rinfacciano di essersi regalati una reciproca infelicità, o gli ipocriti rivelano le loro bugie, o i morti ammazzati raccontano la violenta banalità della loro ultima ora, decisa e uccisa da qualche balordo.
Cesare Pavese diede da leggere S.River, quel santo inesistente che mascherò la prima edizione alla censura fascista, alla giovane Fernanda Pivano e lei, entusiasta di quell’anticonformismo ruvido, antiretorico e antimilitarista, così lontano dai tromboni mussoliniani, si mise a tradurla con passione: e in piena guerra, nel tragico 1943 italiano, uscirono quelle storie spigolose scritte durante la guerra precedente.
Nel crepuscolo del cimitero di Spoon River, tra cento e cento storie tristi che un po’ si assomigliano, rimangono le piccole luci delle vite comunque una diversa dall’altra, ciascuna baciata da una piccola grazia o da una grande tristezza: la signora Kessler che non si è mai persa un funerale prima del suo; padre Malloy che - in netto anticipo sui tempi della Chiesa di Roma - credeva nella gioia della vita e non aveva «vergogna della carne»; Henry Layton che ebbe un padre garbato e una madre violenta e morì per il distacco delle sue due metà; Ippolit Konovaloff che era venuto da Odessa a fare l’armaiuolo, sapendo tutto della canna e del cane; Harry Wilmans di anni ventuno che cadde con gli intestini trapassati nelle Filippine; il fotografo Rutherford McDowell, che ingrandì sulle lastre i volti e l’antica forza dei pionieri.
«Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley, l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacoso, il rissoso? Tutti, tutti, dormono sulla collina».
Anche Edgar Lee Masters, l’avvocato di provincia che amava i classici e fu detestato dai suoi contemporanei per aver raccontato scomode verità sui loro defunti (tra gli oltre duecento ritratti, ne confessò 53 di morti di Petersburg e 66 di Lewistown, Illinois) dorme da qualche parte, senza essersi scritto un epitaffio, mentre noi ancora lo rileggiamo, sempre spiazzati. Come dal finale di questo sorprendente ritratto botanico-letterario di Gustav Richter, giardiniere di serra: «...e io, pensando,/ sentivo una Presenza pensare/ camminando tra i bossi e strappandone foglie, cercando insetti e valutando i fiori, con occhio cui nulla sfuggiva:/ ‘Omero, oh sì! Pericle, bene./ Cesare Borgia, ma che ne facciamo?/ Dante, forse un po’ troppo concime./ Napoleone, per ora lasciatelo./ Shelley, più terra. Shakespeare, forse bisogna innaffiarlo’./ Ehilà, nuvole!».