Visioni di Orlando. Che follia, la vita
Visioni di Orlando. Che follia, la vita
500 anni fa, proprio come oggi, i grandi libri raccontavano storie grandi, passioni incontenibili, vite esagerate, delitti e amori disperati, sangue e lacrime mischiati. Non le solite cose di ogni giorno, non la ricorrente quotidianità, non i gesti meccanici e ripetuti della normalità ma il «maraviglioso», lo straordinario, il fuori dal comune e magari il fuori di testa, l’anomalia che diventa mito.
«Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese» prometteva appunto di cantare l’incipit dell’Orlando Furioso, un’opera-mondo che non invecchia mai perché racconta i lati più avventurosi, singolari e sorprendenti di quella strana storia che è la vita.
Al Palazzo Diamanti della nobile Ferrara, città degli Estensi, delle biciclette, di Antonioni e della Spal, fino all’8 gennaio 2017 una mostra intelligente e non grande (11 sale, 82 pezzi) ci racconta che cosa vedeva il grandissimo creatore del Furioso, messer Ludovico Ariosto, «quando chiudeva gli occhi», titolo poetico per dire che il percorso ci offre alcuni pezzi pregiati del materiale che nutriva l’immaginario visivo dell’autore più visionario, dopo Dante, della nostra letteratura.
I curatori Guido Beltramini e Adolfo Tura ci propongono opere di Paolo Uccello, Mantegna, Leonardo, Raffaello, Tiziano, Dosso Dossi: e le immagini si intrecciano con le parole del poema, con quei quarantasei canti del «Furioso», con quelle milleseicento pagine che hanno la forza evocativa della grande pittura, e oggi diremmo del cinema: una penna che si muove tra campi lunghi e dettagli, piani sequenza e primi piani, come una macchina da presa capace di cogliere gli umori gli odori i colori delle battaglie cruente tra cavalieri cristiani e mori, e dei duelli amorosi, cruenti pure quelli per i cuori innamorati.
Al Palazzo Diamanti si vedono tra gli altri: l’olifante dell’XI secolo, ricavato appunto da una zanna di elefante, che secondo la leggenda era il corno che Orlando fece risuonare a Roncisvalle; il Gattamelata di Giorgione, mirabilmente corazzato e con la mano destra sull’elsa di una spada decorata come un velluto, che ci guarda dai manifesti della mostra con un’espressione enigmatica, annoiata, inquietante; e la visione, ancora più sconcertante, di Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle Virtù (un Mantegna del Louvre), che Ariosto ammirò nel camerino d’Isabella d’Este e le cui figure da incubo popolano il mostruoso corteo in cui s’imbatte Ruggiero nel regno di Alcina. Ed è affascinante la sfera che stava sopra l’obelisco del Vaticano e che vediamo sospesa in aria, un globo di bronzo dorato, 80 centimetri di diametro, con le sue ammaccature da antichi proiettili, lucente e oscuro insieme, una specie di luna inquietante.
E se davvero, vista la perdurante follia del mondo, sulla luna fossero finiti i cervelli dei tanti pazzi che affollano la terra? Non c’è però oggi un Astolfo che sappia salir lassù a ritrovar le perdute intelligenze: oggi lo Schiaparelli si schianta su Marte e non c’è un poeta che scriva un canto, in rime, sul pianeta rosso. Tra la prima edizione del 1516 e la terza del 1532, pochi mesi prima di morire, Ariosto vede un mondo che cambia: la battaglia di Pavia del 1525 simboleggia un trapasso d’epoca per l’Europa, con la sconfitta del re di Francia Francesco I e l’inizio del dominio di Carlo V, imperatore di Spagna, sulle corti padane come quella di Ferrara. Intanto Raffaello e Michelangelo, che il poeta incontra nelle collezioni di Alfonso I d’Este, rivoluzionano la pittura così come l’Ariosto, tra il primo e l’ultimo Furioso, rinnova la sua lingua e la eleva a italiano classico, raffinato e musicale.
Colorato come «Il Baccanale degli Andrii» di Tiziano, che torna in Italia mezzo millennio dopo essere stato dipinto, grazie ad un prestito eccezionale del Museo del Prado.
Tra Angelica e Don Chisciotte, tra mitologia pagana, suggestioni islamiche ed eroi della tradizione giudaico-cristiana vittoriosamente alle prese con i loro orribili nemici (Giuditta e la testa di Oloferne, San Giorgio e il sangue del drago) rivive dunque l’epopea magica di Orlando, «che per amor venne in furore e matto/ d’uom che sì saggio era stimato prima»: e questa dei folli per amore o dell’amore folle è una storia così vecchia che ogni giorno la riscopriamo nuova.