Quando il sicario dei servizi segreti uccise Alois Amplatz e ferì Georg Klotz

Corte d’Assise di Perugia, 21 giugno 1971: «… dichiara Christian Kerbler colpevole di un unico reato di omicidio continuato… e lo condanna alla pena di anni ventidue di reclusione». Per la giustizia – e per la storia – quell’uomo nato nell’aprile del 1940 a Innsbruck e «ultimamente residente in Hall (Tirolo) Rossengasse 3, attualmente dimora sconosciuta, latitante», nella notte fra il 6 e il 7 settembre del 1964 «in un fienile in località Novale di S. Martino in Passiria ha ucciso Luigi Amplatz e ferito Giorgio Klotz» (la sentenza, seguendo il dettato di Tolomei, ha italianizzato Luis e Georg ) e ha fatto passare il colpo di spugna sul reato commesso «il giorno 8 settembre 1964, nei pressi di Gargazzone» usando «violenza ai commissari di Pubblica Sicurezza Giovanni Peternel ed Enrico Benvenuto, nonché al sottotenente di P.S. Renato Compagnoni dandosi poi alla fuga, al fine di sottrarsi ad atti di accertamento sulla sua identità personale».

Più semplicemente, mentre veniva trasferito da Merano a Bolzano su un veicolo della Polizia, era – secondo la versione ufficiale – balzato sull’autiere facendogli perdere il controllo della guida e, uscito dal veicolo sorprendendo due commissari e il militare, era fuggito.

In verità quell’assassino, che doveva essere in manette, non era mai salito sull’automezzo ma era stato urgentemente trasferito in Svizzera, poi in Inghilterra, quindi a Città del Capo dove alcuni anni dopo venne scovato dalla giornalista trentina Laura Mezzanotte. Che tentò di intervistarlo. Ma quella persona che sembrava, e probabilmente era, il latitante, si chiuse rapidamente in casa.

Pagina 215 del libro di Eva Klotz: «Georg Klotz una vita per l’unità del Tirolo» stampato nel 2012: «… domenica 6 settembre [del 1964] aveva avuto luogo presso …. di Bolzano una riunione straordinaria. Come il giudice istruttore di Venezia ebbe successivamente ad accertare fu messo a punto il piano per l’uccisione di Klotz e di Amplatz con relativa consegna dell’arma a tale scopo. Kerbler non possedeva armi, ma sarebbe stato necessario inscenare un conflitto a fuoco con i Carabinieri. Fu quindi scelta la pistola d’ordinanza di un sottufficiale dell’ Arma» poi trovata addosso a Kerbler dal brigadiere Bergamo: una Beretta calibro 9 corto, matricola 616534, numero bastevole per stabilire – ma non c’è traccia nella sentenza di Perugia per capire se quel banalissimo accertamento venne fatto – l’identità del possessore della rivoltella.

Ci fu davvero quella riunione? Davvero si parlò di uccidere? O, forse, si predispose o si ordinò con maggior decisione la cattura di Amplatz e Klotz visto che stavano per lasciare il territorio nazionale? Davvero può essere accaduto un fatto di una portata così enorme?

Kerbler che si spacciava per giornalista, operava dal 1962 con i servizi segreti che lo avevano agganciato, così si raccontò, in un locale notturno di Bolzano. Da settimane era a fianco di Klotz. Era stato lui a concordare l’ intervista con Gianni Roghi, famoso giornalista dell’Europeo. E Kerbler aveva fatto in modo che Albino Cavazzani, all’epoca direttore dell’Alto Adige, vedesse in una via di Innsbruck Georg Klotz, fotografato da Giorgio Salomon. Le “barbe finte”, così venivano chiamati gli agenti dei “servizi”, gli avevano consegnato una Leica, in realtà era una ricetrasmittente, che permetteva di indicare gli spostanti di Klotz e Amplatz che si muovevano lungo i faticosi, impervi sentieri sulle montagne fra Merano e Solden in Ötztal.

Per trascorrere la notte fra il 6 e il 7 settembre si rifugiarono con Kerbler nel fienile sui prati Brunner Mahder. Klotz si era accorto che era aumentato a dismisura lo schieramento delle forze dell’ordine, era sfuggito ad un agguato, non aveva capito che Kerbler era in continua contatto con i militari che gli davano la caccia. Così con Amplatz decise di tornare in Austria il prima possibile; Kerbler comprese che non poteva più consegnarli agli inseguitori anche perché, all’improvviso, Klotz aveva deciso dove avrebbero trascorso la notte. E scelse quel fienile dove Amplatz venne ucciso.

Ecco i tre accamparsi nella baita. Amplatz si infila nel sacco a pelo, Kerbler cede il suo a Klotz e si sistema sul fieno, in mezzo ai due tirolesi. E’ notte fonda, il silenzio è totale. Dalla deposizione resa da Klotz in Austria, di fronte ai giudici del tribunale di Hakk, in accoglimento di una rogatoria della Corte d’Assise di Perugia: «Mi svegliai per alcuni spari… balzai in piedi e vidi Kerbler seduto davanti a me che mi illuminava con la torcia elettrica. Mi accorsi che ero stato colpito al petto e al labbro superiore. Gridai di spegnere la torica mentre impugnavo la pistola ma non avevo preso il fucile d’assalto…».

Mentre usciva dal fienile «gridai venga con me chi ancora può, giù nella gola [molto impervia] che si trovava vicinissima al fienile… Non sentii altri spari, Kerbler non mi aveva seguito».

Ecco il rastrellamento dei Carabinieri. Sono le 7,30 dell’8 settembre quando una pattuglia comandata dal brigadiere Giuseppe Stilo della stazione di San Leonardo in Passiria arriva al fienile, sull’ ingresso è appoggiato un fucile mitragliatore, il sottufficiale spara una raffica di mitra e tira una bomba a mano. Arrivano i rinforzi, il tenente Mauro Santini entra nel fienile e – come si legge nella sentenza della Corte d’Assise – «scorge tutto chiuso in sacco a pelo e con il solo volto visibile il cadavere di un uomo, poi identificato per Alois Amplatz».

Kerbler che ha ucciso Amplat e ferito Klotz (ma la pallottola penetrata nel torace era difettosa, “spenta” e solo per questa fortunosa quanto rarissima coincidenza non era stata mortale), è già con gli Italiani.

Se la motivazione della sentenza la Corte d’Assise di Perugia ha ricostruito in maniera perfetta l’omicidio di Amplatz e il ferimento di Klotz, il movente è totalmente trascurato. Nelle tavole processuali non apparirebbe un cenno sul perché Kerbler decise di sparare in quel fienile sui due tirolesi. Affrontarlo nelle motivazioni significava infatti porsi il problema se Kerbler aveva, o no, sparato quale protagonista di un doppio gioco riuscito male e proseguito peggio. Che il giudice aveva perfettamente capito e infatti scrive: «I fatti emersi in questo processo suppongono evidentemente una più ampia e articolata vicenda, della quale si intuiscono molti contorni, ma che né le indagini istruttorie né quelle dibattimentali hanno potuto rendere in tutto palese con quella chiarezza e certezza di riferimenti cui il giudice non può rinunciare».

Dunque, il movente del delitto resta, per usare un termine che piace agli appassionati di gialli, «nell’ombra» e il giudice estensore Lucio Schippa agiunge: «Consapevole dei limiti e dei metodi che la responsabilità del giudizio e le norme di rito prescrivono, la Corte ha ritenuto conforme al suo dovere e alla sua dignità stare ai soli fatti processualmente certi, senza lasciarsi neppure tentare dal richiamo fascinoso di una facile immaginazione, magari felice e pertinente, ma tuttavia non dimostrabile con metodo giuridico».
(continua)

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