Ottant'anni fa il Duce portò l'Italia in guerra
Ottant'anni fa il Duce portò l'Italia in guerra
L’Anschluss fu per Mussolini uno scacco durissimo. Intimamente convinto che fosse inevitabile, non si era rassegnato all’idea. Nel marzo del 1936 c’era stata la rimilitarizzazione della Renania e il 12 marzo del 1938 l’annessione dell’Austria alla Germania, con l’obbiettivo di formare il Grande Reich, aveva spaventato il Duce. Il filmato dell’Istituto Luce (L’Unione Cinematografica Educativa) gli aveva mostrato la folla enorme di austriaci che s’accalcava in un entusiasmo indescrivibile attorno a Hitler; l’Ovra, soprattutto il Sim, il Servizio informazioni militari, gli avevano comunicato “il riaccendersi nei tirolesi dell’Alto Adige della speranza di una imminente liberazione” e la marcia svogliata e lenta dei reparti del Regio Esercito inviati verso il Brennero per mostrare ai tedeschi che gli italiani erano vigili e armati si era fermata prima di Ala per subito tonare alle caserme di partenza, aveva deluso il dittatore.
Una delle primissime conseguenze dell’ Anschluss era stato appunto il riaccendersi in Alto Adige – si rischiava la galera chiamandolo Sudtirolo – delle speranze di una prossima liberazione di quelli che in Austria venivano chiamati “i fratelli sudtirolesi” e Mussolini, spaventato dall’alleato, prese la decisione di rendere ermetica la frontiera con la Germania affermando: “La frontiera nord [il Brennero] non è un fiume, ma otto mesi all’anno una barriera impenetrabile di ghiaccio e durante il resto del tempo di rocce scoscese, dunque facilmente difendibile”. Ma ghiaccio e rocce non bastavano e così si cominciò a costruire quel sistema di costosissime fortificazioni ripristinato nell’epoca della “guerra fredda” pur nelle certezza che una temuta invasione dall’Est avrebbe portato in pochissimi giorni le armate sovietiche ben oltre Torino facendo fare una gran brutta fine ai soldati asserragliati nel cemento armato delle casematte, nella gallerie e nei fortini.
L’11 marzo Hitler scrisse a Mussolini quella lettera nella quale si legge “… una cosa desidero assicurare a Lei, Eccellenza, in modo solenne, a Lei, quale Duce dell’Italia fascista… che ho tracciato una netta frontiera tedesca verso la Francia e ne traccio ora una, altrettanto netta, verso l’Italia: E’ il Brennero”. Poi il solenne impegno: “Questa decisione non verrà mai né discussa né attaccata, non verrà mai messa in discussione”. William Shirer il giornalista americano che visse nel Terzo Reich ed ebbe a disposizione, a guerra finita, gli archivi segreti del governo tedesco compresi i documenti del Ministero degli Esteri, dell’esercito, della marina, del partito nazionalsocialista e della polizia segreta di Stato di Heinrich Himmler finiti nelle mani degli americani e ampiamente usati nel processo di Norimberga, scrisse nel febbraio del 1963 per la Overbrook Foundation, che “la linea di frontiera del Brennero fu lo zuccherino dato a Mussolini. Significava che Hitler non avrebbe chiesto la restituzione dell’Alto Adige, regione che il trattato di Saint-Germain aveva staccato dall’Austria e assegnato all’Italia”.
Da oltre Brennero arrivavano dai membri delle gerarchie naziste, notizie allarmanti puntualmente riportate nei Diari di Galeazzo Ciano, il genero di Mussolini, il Ministro degli Esteri dell’Italia fascista. Volevano “portar via agli italiani Trieste per il porto che dava ai tedeschi l’ accesso all’ Adriatico, quindi al Mediterraneo, occupare le ricche pianure settentrionali d’ Italia, trasformare il Lago di Garda in un paradiso per le vacanze e luogo di cura e riabilitazione dei soldati feriti”, mettere le mani in Toscana sul mercurio delle miniere di Abbadia San Salvatore sul Monte Amiata, fondamentale per la preparazione del fulminato di mercurio che serve – o meglio serviva – nella preparazione degli esplosivi – e a Trento sui segreti della Sloi dove si produceva il piombo tetraetile, l’additivo della benzina fondamentale per i motori degli aerei e si studiava, probabilmente in maniera empirica, la benzina sintetica e, forse, secondo leggenda, qualche tipo di propellente per i sottomarini. La penuria di benzina era uno dei problemi della Germania; quella sintetica ricavata dal carbone, una possibilità per fronteggiare la cronica carenza di carburante.
Nello studio fatto nel 1950 da Sumners Welles uno dei più autorevoli diplomatici americani che nell’amministrazione Roosevelt aveva ricoperto dal 1937 al 1943 la carica di Sottosegretario, analizza gli scritti di Ciano alla vigilia di quel fatale 10 giugno del 1940 che segnò il piombare dell’Italia nella tragedia della guerra, si legge: “Il Ministro non nutriva alcuna illusione su quello che avrebbe riservato all’Italia, un’Europa dominata dai tedeschi. Egli era convinto che solo una disfatta della Germania avrebbe potuto instaurare un ordine mondiale in cui potesse sopravvivere un’Italia sovrana”. Sumner Welles fu il primo americano a leggere i citati Diari; inoltre ebbe sottomano una imponente documentazione dalla quale emergono le intenzioni della Germania: l’Italia sarebbe divenuta un periferia del Reich.
Welles spiega che “l’Italia si era prostrata davanti a Mussolini. Egli era stato messo in grado di ottenere un controllo quasi completo su ogni forma di attività della vita italiana. Da cima a fondo, il sistema politico italiano era divenuto completamente guasto attraverso l’influsso corruttore del fascismo… nel 1940 non esisteva alcun mezzo con cui la volontà del popolo italiano potesse combattere la fatale decisione del suo dittatore”. E ancora. “La volontà del Duce era legge, per quanto perversa, per quanto ignorante e per quanto ciecamente errata la considerassero i gerarchi fascisti. Giacché nessuno in Italia, dal Re ai ministri, dai generali ai magnati dell’ industria, osava opporsi a lui”.
Il Duce aveva soggiogato gli italiani che lo amavano e lo temevano, lo imitavo e, solo segretamente, lo deridevano. Lui si scagliava contro quel popolo in orbace accusandolo di poca voglia di fare la guerra. Si legge nei diari di Ciano: “Motivi principali: la decadenza demografica, la tendenza al liquorismo, al pressapochismo” e così aveva pensato “al rimboschimento appenninico per rendere più rigido il clima dell’Italia per determinare una più perfetta selezione e un miglioramento razziale”. Insomma nei primi giorni del giugno del 1940, l’uomo forte, l’uomo segnato dal destino si preparava a dichiarare la guerra al Mondo, pur sapendo che fatta eccezione di un piccolissimo gruppo di capi fascisti, il popolo italiano era fortemente contrario a prendere le armi.
Nelle piazze e a Palazzo Venezia Mussolini si mostrava – e voleva che quel termine venisse riportato dal giornali – “granitico”. Eppure era un uomo remissivo. Trento, sabato 11 settembre 1909, nell’attuale Piazza della Mostra ai piedi del Castello del Buonconsiglio, nella sede della gendarmeria, dopo il 1919 divenuta Questura, e nell’ ufficio di Rudolf Muck il poliziotto che indaga su una cospirazione di irredentisti, Mussolini redattore del giornale “Il Popolo” di Cesare Battisti viene interrogato sul contenuto di alcuni articoli. E’ all’oscuro degli accadimenti oggetto dell’inchiesta. Il verbale dell’interrogatorio, un documento arido però preciso, lascia trasparire il sentimento dell’interrogato. Di fronte a Muck in divisa, Mussolini appare molto remissivo.
Lui, il tribuno dal verbo violento, che si firma “vero eretico”, l’uomo che glorificherà il “me ne frego”, non cerca per scagionarsi la frase ad effetto né affronta con sfrontatezza, come ha sempre fatto nel suo soggiorno trentino, ogni forma di autorità. Appare intimidito, umile, soggiogato. Come era soggiogato da Hitler, come rimase intimidito alle ore 17 di quel 26 luglio del 1943 – il giorno dopo il voto del Gran Consiglio che lo aveva defenestrato – quando a Roma, a Villa Savoia, Vittorio Emanuele III, dicendogli “Caro Duce, le cose vanno male, l’Italia è in tocchi” lo fece arrestare. Docilmente si lasciò condurre all’ambulanza che segnava la fine del potere di un uomo che aveva dichiarato guerra alla Francia, all’Inghilterra, all’ Unione Sovietica, agli Stati Uniti.
(3. Continua)