Ma non tutti sono campioni del mondo
Ma non tutti sono campioni del mondo
La verità - che a volte si tende a non guardare in faccia - è che il nostro eroe normale, il nostro campione della porta accanto, è morto a 62 anni. Non a 64. Perché due anni gli sono stati portati via da una giustizia ingiusta. Mettere il nome di Paolo Rossi al centro di una grande inchiesta, in quegli anni, garantiva infatti popolarità e visibilità. Ma lui non aveva nessuna colpa: se non quella di non aver detto che uno strano personaggio, che nemmeno ascoltò, cercò di avvicinarlo.
Rossi perse due anni di vita, di calcio, di stipendi, di popolarità. Solo due persone gli hanno permesso di rinascere e di uscire da uno scandalo che in questi giorni qualcuno ancora ricorda in modo distorto (il venticello, quando s'alza, è sempre micidiale). Le due persone si chiamano Bearzot e Rossi. Alla faccia di un Paese diviso fra giustizialisti e migliaia di presunti allenatori che consideravano il giovanissimo Rossi già praticamente finito, il commissario tecnico della Nazionale lo scelse. Di più: lo impose. Contro tutto e tutti. E Pablito in persona fece il resto: con i suoi gol, con quel sorriso che era un giubbotto antiproiettili capace di disarmare tutti, si liberò dalle sbarre delle ingiuste accuse. Con i gol. Con quel mondiale. Con quel sogno collettivo che ci fece uscire in un baleno dagli anni di piombo e dal ricordo dell'austerity. Ma se avesse fallito? Pensate forse che i giudici sportivi che lo misero alla gogna gli avrebbero restituito quella dignità che s'è invece ripreso da solo?
Calogero Mannino, ad esempio, non ha fatto sei gol in un mondiale. Ha avuto solo la fortuna di vivere più a lungo di Paolo Rossi. E così, dopo un calvario di 31 anni, è stato assolto dalla Cassazione. A 81 anni. Accusato d'essere un protagonista della presunta trattativa Stato-mafia, ha passato decenni nel fango. Carriera politica distrutta. Dignità calpestata. Persino la scelta di optare per il rito abbreviato - per poter vedere una sentenza prima di morire - venne denigrata dal suo accusatore Ingroia, che tutti ricordano per le imitazioni di Crozza, per il suo patetico tentativo di scendere in politica e per la sua recente condanna per peculato forse più che per la sua precedente attività di magistrato. Senza gol, però, Mannino non ha fatto di nuovo il ministro o, come sembrava in quegli anni lontani, il segretario nazionale del partito: e il fatto che ci fosse ancora la Democrazia cristiana quando Mannino finì nel tritacarne, dà un'idea dei tempi della giustizia.
Cristina Maioli, infine, non potrà dire nulla. Perché è stata uccisa. Due volte.
La prima, dal marito violento Antonio Gozzini. La seconda da chi quel marito assassino l'ha assolto, perché in preda a un «delirio di gelosia quale situazione patologica da cui consegue una radicale disconnessione della realtà».
Tre storie diversissime. Tre storie amarissime. L'unica speranza è che ci sia sempre un (altro) giudice in grado di riformare le inaccettabili sentenze di qualche collega. Ma la dignità muore una volta sola. E non tutti se la riprendono diventando campioni del mondo.