La vicenda del Simonino e la persecuzione degli Ebrei a Trento
Era il tardo autunno del 1947, a Trento – alla Portéla, in via San Martino e in altri luoghi – c’ erano ancora le macerie conseguenza di quella guerra cominciata nel grido di “vincere e vinceremo” scandito dal balcone di Palazzo Venezia dal DUCE (le maiuscole erano obbligatorie) e accolto da un entusiasmo indescrivibile. Gli sfollati avevano da poco abbandonato Torre Vanga, gli attuali Palazzo Trentini, delle Albere e Geremia ma nel maggio del 1955 si continuava a vivere in ripari di fortuna ricavati fra le macerie dell’ex caserma di corso degli Alpini e dove domenica 8 era stata ferita Ausemioa Riviera una fioraia di 10 anni.
Appena finita la guerra, fra i bambini c’ era stata un’ epidemia molto forte di morbillo curata con poche medicine e molte, moltissime preghiere. Le guarigioni venivano celebrate con novene nelle chiese, soprattutto in quella di San Pietro dove c’ era, imbalsamato, il corpo del Simonino all’epoca beato, “patrono” dei bambini.
Ricordo benissimo che in quella chiesa i bimbi venivano condotti dove fra le luci delle candele votive erano custodite le reliquie del piccolo “martire” circondate dagli ex voto; si vedevano quelle minuscole scarpine di lana – bianche, rosa o azzurre – donate dalle mamme, dalle nonne o dalle zie di quei bambini che la bontà del venerato aveva salvato, molti anni prima, dalla furia della spagnola. E quel “spagnola”, ma le donne trentine la chiamavano “grippe”, veniva pronunciato a bassa voce, quasi un sussurro, subito accompagnato da racconti così tremendi da far paura quanto la visione della pentolaccia nera dove era stato raccolto e cotto il sangue fatto sgorgare dal corpo del bimbo cristiano ferito dai morsi del tenaglione anche quello di ferro e, ovviamente, nero come il carbone e dagli aghi che gli “ebrei assassini” avevano usato per bucare gli occhi e le gote e le orecchie del bimbo raffigurato sul portale della chiesa con in pugno lo stendardo della fede e della gloria.
Dai racconti affiorava la gran pena per la morte di donne e di neonati falciati dalla tragica epidemia; oggi sappiamo che, secondo i dati rilevati in tredici studi su donne incinte, ospedalizzate durante la mostruosa pandemia, il tasso di mortalità era compreso tra il 23% e il 71% e fra quelle sopravvissute al parto, oltre un quarto (26%) perse il bambino. Un dato comune in ogni angolo del mondo perché la spagnola colpì, inesorabile, ad ogni latitudine, coinvolgendo persino l' Artico, le più remote isole del Pacifico, persino nel cuore delle foreste dell’ Argentina, sulle sponde del rio Vermeco dove, secondo la leggenda che ancora si racconta, morirono tutti gli abitanti di un villaggio dopo l’arrivo da una città della Bolivia di un francese. Aveva detto di essere stato un marinaio sopravvissuto al naufragio di un piroscafo a bordo del quale era stato stivato un notevole quantitativo di carne congelata destinato all’ Inghilterra, in quell’epoca schierata nella Grande Guerra sul suolo francese e italiano.
Il coro di mamme, nonne e zie sinceramente devote, s’alternava nel narrare ora il “martirio” del bimbo, ora la morte per spagnola perché in quegli anni Cinquanta del Novecento il ricordo dell’epidemia era ben presente come le storie della guerra finita nel novembre del 1918, che fu chiamata Grande, con la tragedia delle trincee ad intrecciarsi con le vicende degli ospedali da campo dove la spagnola aveva cominciato ad uccidere milioni di giovani soldati, medici, infermiere e civili in una strage superiore all’ enormità del tragico conteggio bellico. Si raccontò di almeno venti milioni di morti; si sospettò di un veleno sfuggito al controllo di qualche laboratorio dove si studiavano i gas e non contenti di quei possenti veleni impiegati nell’aprile del 1915 a Ypres, si cercavano altre orribili forme di guerra, magari batteriologica. Non era vero. Però faceva molta impressione e le recite del Rosario si infittivano.
Negli Stati Uniti, la malattia era stata osservata per la prima volta, era il gennaio del 1918, nella contea di Haskell nel Kansas, spingendo il medico Loring Miner a mettere in allarme, purtroppo con scarso successo, l' U.S. Public Health Service. Il 4 marzo 1918, Albert Gitchell, cuoco dell’ esercito, si ammalò nelle cucine di Fort Riley, una struttura dove si stavano addestrando truppe statunitensi destinate a combattere in Europa, sul fronte occidentale. Da ricordare che gli ufficiali americani, appena sbarcati sul suolo francese, erano stati portati a ridosso delle prime linee dove videro i soldati che sopravvivevano, combattevano, morivano uno accanto all’altro, quasi spalla a spalla, nelle trincee, nelle caverne, nelle buche, fra corpi insepolti, legioni di topi, sporcizia immonda, nauseabondi odori. Negli Usa non avevano mai visto un simile affollamento, nettamente superiore a quelli della Guerra di Secessione e così pensarono di addestrare le reclute ad affrontare la nuova situazione, ricreando quell’inferno negli enormi campi di addestramento che si andavano allestendo. Addensarono le reclute nelle camerate, nelle mense, nelle latrine, nei lavatoi e nelle libere uscite, nei bordelli. Poi caricarono i soldati sulle navi che salpavano da Boston e da New York per i porti francesi e, forse, la traversata atlantica trasferì l’orrore della spagnola dagli Usa all’Europa.
Sul fronte dell’Ovest e lungo quello del Piave, da Venezia a Calè, nel groviglio delle trincee, era mostruoso l’ammassamento di uomini costretti a sopravvivere nell’ assenza delle più elementari quanto banali norme di igiene, tragedia che si moltiplicava nelle case di tolleranza, sempre rigurgitanti, per la truppa, poi nelle Case del Soldato aperte nelle immediate retrovie del fronte, soprattutto negli ospedali sovraffollati, impegnati a tentare di curare migliaia di soldati vittime di attacchi chimici che devastavano bronchi e polmoni. Un morbo che rimase, e in parte lo è ancora, un mistero. Si dovette attendere il 1999 per avere i risultati di una accurata ricerca sulle origini. Venne condotta da un gruppo di studiosi inglesi guidato dal virologo John Oxford del St. Bartholomew’s Hospital e del Royal London Hospital impegnato in quell’ anno nello studio attorno all’aviaria. La ricerca ha identificato negli ospedali del il campo trincerato di Etaples nell’ Alta Francia come il centro dell’ epidemia scatenata nel 1918. Quello era il luogo ideale per la diffusione del virus respiratorio se si pensa che ogni giorno, ad Etaples, s’ammassavano per essere curati o aiutati a morire o trasferiti altrove, circa 10.000 soldati feriti, mutilati, soprattutto intossicati dai gas. Oxford e il suo team di ricercatori asserirono che un virus precursore, cresciuto negli uccelli, fosse riuscito a mutare, tanto da poter infettare i maiali che, in massa e in condizioni igieniche disastrose, erano tenuti nei pressi del fronte come fonte di cibo dopo una macellazione che non poteva contemplare le minime norme di pulizia.
Ma alla fine degli anni Quaranta, le pie donne ricordavano benissimo i necrologi pubblicati sugli ultimi numeri de “Il Risveglio Austriaco” il giornale dell’Imperial e Regia fortezza di Trento, poi su “Il Nuovo Trentino” di Alcide Degasperi. Particolarmente devote al Simonino incontrato nelle preghiere fin da bambine, portavano nella chiesa di San Pietro figli e nipoti guariti da quel morbillo che, lo si diceva al mercato di Piazza delle Erbe, era stato particolarmente insidioso e aveva costretto un po’ tutti ad un lungo periodo di isolamento, chiamato quarantena perché si doveva restare chiusi in casa per quaranta giorni. A Trento, era l’autunno del 1959, Giuseppe (Beppino) Disertori medico psichiatra, uno dei fondatori dopo l’ 8 settembre del 1943 del Comitato di liberazione nazionale, il Cln, primario di neurologia all’ospedale Santa Chiara poi docente all’Università di Padova quindi a Sociologia, aveva tenuta una conferenza attorno alla spagnola. Lui aveva scoperto che il morbo aveva mutato, fra i superstiti, l’umore e così persone tranquillissime potevano, all’improvviso, diventare molto aggressive.
Lunedì 9 maggio 1955. Il titolo del giornale “L’Adige” è un vistoso “La grande manifestazione decennale – in onore del beato Simonino da Trento” simile a quello del giornale “Alto Adige” mentre il titolo de “Il Gazzettino” è “L’urna con le reliquie del Martire – è passata tra ali di fedeli genuflessi” con una cronaca minuziosa firmata da Elio Scorza a raccontare “la festa del compatrono della città il cui martirio viene commemorato a Trento, ogni dieci anni, con una grande cerimonia religiosa e con una solennità che ha sempre costituito un commovente tributo della venerazione che la gente trentina nutre per il piccolo martire”. Quella di Scorza è stata, sempre, una cronaca precisa, scrupolosa. Ecco raccontata nella chiesa di San Pietro la solenne messa cantata, officiata dal vicario generale della diocesi monsignor Bortolameotti, “il coro della parrocchia guidato dal maestro Martinelli che ha eseguito la seconda pontificalis di don Lorenzo Perosi mentre altri riti sono stati celebrati in mattinata nelle tre cappelle dedicate in città a San Simonino e che sono state per tutta la giornata meta di numerosi fedeli. In quella di via San Simone, indicata come l’abitazione del bimbo, è stata anche impartita alla presenza di una folla commossa, la prima comunione ai bambini Renato Rodenghi e Roberto Alberini. Nel pomeriggio, dopo i Vespri si è mossa dall’arcipretale di San Pietro la solenne processione alla quale hanno fatto ala migliaia e migliaia di cittadini”. Davvero la folla era imponente e la processione era un fiume di gente che seguiva “gli scout cattolici che assieme alla banda di Mezzocorona precedevano il gonfalone del Santo. Quindi in lunghissima teoria seguivano i fanciulli dell’oratorio, le associazioni parrocchiali, gli istituti religiosi di beneficenza, i bambini e le bambine degli asili cittadini alcuni dei quali erano graziosamente abbigliati da angeli, altri indossavano tracolle bianche ed azzurre crociate e molti recavano fiori”. Ecco il clero: colonne di frati, preti, suore e “le autorità fra le quali abbiamo notato il sindaco Nilo Piccoli con l’assessore Marchesoni, il vicepresidente della Provincia Luigi Dalvit, il direttore della Trento-Malè Spagnolli poi Abramo Spada, il comm. Bertotti, il cavalier Noè Fauri, Visetti, Tononi” e altri ancora.
Ecco descritti i canonici della cattedrale reggere i reliquiari di cristallo e di squisita fattura barocca, con la struttura in argento sulla quale sono incastonati vetri e altre pietre colorate ridotte alla dimensione di gemme. Ricordo benissimo che in un’urna anche quella di cristallo c’era un coltellaccio che, per un riflesso, pareva rosso di sangue; nell’altra una tenaglia, anzi un tenaglione così lugubre su quel cuscino di raso rosso che più che uno strumento usato per afferrare, stingere o sconficcare sembrava fatto apposta per straziare le carni. Al passaggio degli arnesi del “martirio” usati dagli ebrei per far sgorgare il sangue dal corpo di Simone – ma la cronaca dei quotidiani non accenna agli ebrei – la gente si inginocchiava, in moltissimi a tendere fazzoletti candidi che giovani sacerdoti sveltamente li prendevano, li toccavano sull’ urna con il corpo imbalsamato bel bimbo, per riportarli ai fedeli che facevano baciare quei simboli di fede ai loro figli, i più piccoli levandoli alti sopra la testa in un confuso mormorio di preghiere.
Proprio fra via del Suffragio, via San Marco e via San Pietro, quasi sul Canton, un gruppo di uomini e di donne di fede socialista e comunista, pochi in verità perché all’epoca, a Trento la sinistra era quasi una setta, fra le quali Livia Battisti figlia di Cesare e di Ernesta Bittanti e Bice Rizzi, l’ultima donna del Risorgimento e appassionata direttrice al Castello del Buoncosiglio del famoso Museo, invece di inginocchiarsi era rimasto in piedi mostrando distacco da tanta solennità e devozione e qualcuno aveva detto ad alta voce: “E’ falso”. Forse ci fu un sussulto fra quanti avevano udito quel grido che non è riportato nella cronaca minuziosa della processione conclusa in Piazza Italia con il discorso dell’arciprete di San Pietro Gosetti “che dopo aver rammentato il martirio al quale era stato sottoposto il piccolo Simonino ha elevato un inno alla purezza dei fanciulli”. Si ricorda che il corteo religioso scortato dai Carabinieri di alta uniforme, compiuto il percorso obbligato dalla tradizione, era tornato nella chiesa di San Pietro attraverso il portale cinquecentesco per raggiungere la cappella posta a sinistra dell’altare dove sotto la bella cupola barocca venivano conservati un corpicino imbalsamato, gli strumenti della presunta tortura, gli ex voto di un’antica devozione. Nessuno quel giorno immaginò che quella sarebbe stata l’ultima processione in onore del beato Simonino. (6, continua)