Tre revolverate a Togliatti e l’Italia sfiorò l’insurrezione
“Hanno sparato a Togliatti” e quel grido portò l’Italia sull’orlo dell’insurrezione. Era il 14 luglio del 1948, il giorno della Bastiglia per i francesi, un’altra giornata di ordinaria fatica per gli italiani che vivevano nelle città ancora profondamente segnate dai bombardamenti e nell’incubo della “guerra fredda” che fra le macerie di Berlino sembrava sul punto di diventare la terza guerra mondiale.
Quello a Roma era il primo giorno di vera estate dopo settimane uggiose, quasi autunnali e alla Camera alla vigilia delle ferie parlamentari, stava parlando Giulio Andreotti “sul non affascinante problema della fornitura di carta ai giornali quotidiani” come raccontò nell’aprile del 1966 a Trento nella sede dalla Dc, “ed era più che naturale che Togliatti scegliesse un modo migliore per impiegare il suo tempo: andare a prendere un gelato con la sua nuova compagna di vita, l’onorevole Leonilde Iotti”. Gli fu fatale: Antonio Pallante un giovane anticomunista fanatico, venuto nella Capitale da Catania con una valigia semivuota, una copia del “Mein Kampf” di Adolf Hitler e un revolver Hopkins & Allen Safety Police 1905 cromato comperato per 3500 lire e cinque proiettili di piombo morbido, come si legge nella perizia balistica, tentò di ucciderlo. Due giorni prima era stato in via delle Botteghe Oscure, la maestosa sede del Pci, a firmare un modulo per incontrare Palmiro Togliatti il leader del Partito comunista italiano che però era assente. Così si era recato a Montecitorio per vedere dalle tribune il suo bersaglio.
Togliatti e Nilde Iotti escono come di consueto da una porta laterale. Pallante gli è addosso e spara tre colpi. Nell’assolato e quasi deserto quadrilatero di Montecitorio ci sono i giornalisti Vittorio Gorresio, Massimo Caprara e un carabiniere. Raccontarono che la Iotti gridò “assassino a voce altissima per poi gettarsi sul corpo di Togliatti mentre il carabiniere, afferrato la mano dell’attentatore, lo disarmava” Sarà la “Tribuna Illustrata” a mostrare la scena, ma sono le due edizioni straordinarie de “l’Unità” con i titoli “Criminale attentato a Togliatti” e “Via il governo degli assassini” a segnare le 48 ore di fuoco, le più gravi vissute dal nostro Paese fino alla sera della strage di Piazza Fontana a Milano, di quel 12 dicembre del 1969 che segnò la nascita delle Brigate Rosse. La rabbia compressa dalle sinistre che nelle urne del 18 aprile avevano visto sfumare con la sconfitta elettorale ogni prospettiva rivoluzionaria, si traduce in una serie di confuse, spontanee manifestazioni “a mezza strada – come scrisse il giornalista Gianni Corbi – fra la disordinata jacquerie e la conquista di un improbabile Palazzo d’Inverno. Nelle vie, nelle piazze, nei luoghi di lavoro, l’attenzione degli italiani è fissa sulla sala operatoria del Policlinico di Roma dove un chirurgo famoso, il prof. Pietro Valdoni, sta lavorando con il bisturi per salvare la vita al capo dei comunisti italiani”.
A Roma le edizioni straordinarie dei giornali – la televisione non c’era ancora – si susseguono mentre il tam-tam comunista mobilita operai e militanti che dalle borgate si dirigono in colonne sempre più fitte verso il centro della città. Alle 16 Togliatti si risveglia, è lucidissimo, abbraccia il figlio Aldo e gli dice “tranquillo, ce la farò”, ma mentre il dramma si sta felicemente sciogliendo nella stanza del Policlinico, in tutt’ Italia si accendono i fuochi della rivolta. Molte sedi della Dc sono devastate; a Genova quanti erano stati partigiani, al grido “adesso si smura“ – questo lo sentì raccontare negli anni successivi Gigi Faggiani che diventerà geometra a Trento – avevano prelevato dai depositi clandestini quelle armi mai consegnate con la fine della guerra. Ma i lampi di rivolta durarono poche ore perché il Governo di Alcide Degasperi aveva mobilitato a difesa dell’ordine pubblico anche l’Esercito e perché i sindacati, resisi conto che si era trattato di un crimine isolato e non del segnale dello scatenamento di un sovvertimento reazionario, esercitarono una responsabile azione di raffreddamento degli animi. Comunque a Milano si creano barricate con le ruote dei tram saldate ai binari, a Torino, questo lo riferì il Ministro degli Interni Mario Scelba nella seduta del 15 luglio alla Camera, “… il fatto più grave è stato il sequestro di tutti i dirigenti tecnici ed amministrativi di circa 30 complessi industriali operato dalle commissioni interne della Fiat… è stato sequestrato anche il consigliere delegato professor Valletta”. E’a questo punto Luigi Longo, vicesegretario del Pci balzò in piedi gridando “viva gli operai della Fiat” e in Parlamento il sussulto rivoluzionario raggiunse il culmine.
A Trento il giornale “Alto Adige” del 15 luglio uscì con il titolo a caratteri di scatola “Sciopero generale in Italia - per il criminale attentato a Togliatti” ma in città le manifestazioni furono contenute. Nel pomeriggio una discreta folla si radunò in via del Suffragio di fronte al negozio di stoffe di Andrea Zampiero perché il ragioniere Renzo appassionato radioamatore, aveva istallato un altoparlante che collegato ad un apparecchio radio Cge3105, all’epoca una rarità, diffondeva la cronaca del Giro di Francia che vedeva Gino Bartali assoluto protagonista. E anche le strepitose vittorie del grande campione con 13 minuti di vantaggio su un altro grande atleta il francese Bobet frenano gli impeti rivoluzionari e così tre giorni dopo l’attentato, l’ “Alto Adige” titola in prima pagina “Atmosfera di distensione - mentre si riprende il lavoro” perché lo sciopero generale c’era stato, ma era anche rientrato. Poi il “fondo” del direttore Tullio Armani intitolato “Tempesta passata” rimarcava il discorso di Degasperi alla Camera là dove aveva detto: “Il popolo italiano non vuol veder né fascisti né bolscevichi, il popolo italiano non vuole dittature. E’ questo il responso elettorale del 18 aprile ed a questa linea si ispira il programma del Governo”.
Le condizioni di Togliatti miglioravano mentre sull’Europa si affacciavano minacciosi scenari. Sempre dal titolo dell’ “Alto Adige” del 17 luglio. “Il blocco russo di Berlino -potrebbe provocare una guerra”. La ex capitale del Terzo Reich veniva rifornita di generi alimentari, carbone, benzina, medicine ogni giorno da quasi mille aerei americani, inglesi e francesi mentre l’Armata Rossa bloccava, armi alla mano, ogni accesso alla metropoli devastata. Anche quei venti di guerra avevano spaventato i comunisti italiani mentre cominciavano i funerali per i sedici morti nel giorno della guerriglia.
Resistevano solo i compagni di Abbadia San Salvatore, il bellissimo borgo dei soffioni boraciferi, delle terme e delle miniere di mercurio sulle pendici del Monte Amiata. Scrisse Gianni Corbi. “I comunisti di Abbadia sono convinti che la rivoluzione sia scoppiata dappertutto. Prevalse l’idea che la mancanza di ordini precisi fosse la conseguenza della battaglia che si stava combattendo nelle strade di Siena e si decise di passare all’azione. I cinque punti del piano insurrezionale – ogni località aveva il suo, compreso Trento dove, lo disse molti anni dopo il federale del Msi René Preve Ceccon, si doveva bloccare la ferrovia del Brennero alla Chiusa di Verona – prevedeva soprattutto il blocco del cavo coassiale, che passando appunto da Abbadia, in quell’epoca era l’unico, collegava i telefoni del nord con quelli del sud.
Si pensò di uccidere anche i nemici del comunismo e si cominciò dal maresciallo dell’Arma Giambattista Carloni, mentre i minatori si radunano nelle gallerie dove si estraeva il mercurio. Ricorda Olga Mambrini Tondi che da tempo vive a Trento: “Il mattino del 15 stavo raggiungendo con mio fratello la colonia estiva quando ci dessero di tornare subito a casa; vidi i minatori dirigersi verso l’imbocco della miniera e noi restammo chiusi in casa” perché ci vollero i reparti dell’Esercito per far cessare il più grave e pericoloso sussulto rivoluzionario della nostra Repubblica.
Ci sono due leggende. Una legata alle strepitose vittorie di Bartali al tour de France. Nell’aula di Montecitorio entrò, trafelato, un parlamentare che urlò “Bartali ha vinto ancora” e l’enorme applauso soffocò il violento tafferuglio verbale. L’ altra racconta che Togliatti vedendo Valdoni chinarsi su di lui gli disse, in latino, che stava bene. Il chirurgo gli rispose in greco. I due si capirono. Altri tempi. Altri personaggi.