Quando Priebke uno dei boia delle Ardeatine passò a Roncegno nel comando della Gestapo

di Luigi Sardi

Improvviso si levò il grido “se ti dimentico Gerusalemme” seguito dal maestoso, struggente canto di Israele, l’Hotikvah, La Speranza: “Finché dentro il cuore l’Anima ebraica anela e verso l’oriente lontano un occhio guarda a Sion, non è ancora persa la nostra speranza di essere un popolo libero nella nostra terra, la terra di Sion e Gerusalemme”. Che il Reich dei Mille Anni voleva cancellare dal mondo per l’eternità.

Le donne, gli uomini che erano ancora bambini quando si salvarono dal ghetto di Roma rastrellato dai nazisti e gli ebrei venuti da Tel Aviv, lo intonarono con orgoglioso rapimento

In quel tardo pomeriggio del primo agosto del 1996 mentre i giudici del tribunale militare di Roma presieduto da Agostino Quistelli uscivano dalla camera di consiglio per emettere la sentenza che i parenti delle vittime dell’eccidio delle Fosse Ardeatine aspettavano da 52 anni.

“In nome del popolo italiano il Tribunale militare di Roma, alla pubblica udienza ha pronunciato la seguente sentenza…” poi la rapida lettura degli articoli del codice penale con l’annuncio del perfetto, ma non casuale, bilanciamento fra le attenuanti e le aggravanti a significare che il reato, cioè l’omicidio plurimo premeditato, era estinto perché caduto in prescrizione.

Erich Priebke di 83 anni non era più il responsabile dei cinque uomini uccisi in soprannumero non a causa di un errore di conteggio: quei cinque non potevano essere ricondotti vivi dalla orrenda cava nel carcere di Regina Coevi da dove erano stati appena prelevati. Testimoni del massacro, erano troppo ingombranti per la storia. Portati erroneamente sulla scena della strage per decisione proprio di Priebke, quei cinque uomini di troppo vennero assassinati con un colpo alla testa. L’errore di aver ucciso quegli cinque in più, fu discusso a lungo fra gli ufficiali delle SS di stanza nella Capitale, così si decise di rendere nota la cifra di 320 uomini “giustiziati” in risposta ad un’altra strage, quella di via Rasella che aveva falciato 32 soldati del battaglione “Bozen”, il Polizeiregiment, tutti cittadini sudtirolesi o meglio altoatesini come obbligatoriamente si diceva in quell’epoca.

Il Presidente del Tribunale militare alzò lo sguardo dall’ unico foglio sul quale era scritto il dispositivo della sentenza e disse testualmente: “Cioè, colpevole ma non punibile”. Su quell’avverbio che significa “intendo dire”, il magistrato aveva avuto come una sospensione della voce, quasi un sospiro per subito ordinare la scarcerazione dell’imputato se non detenuto per altra causa e, seguito dai due giudici a latere, lasciata l’ aula si rinchiudeva nel suo ufficio.

Questa la conclusione del processo ad Erich Priebke, l’ SS-Hauptsturmführer che aveva partecipato alla strage e dopo aver vissuto per mezzo secolo a Bariloche in Argentina, era stato smascherato, estradato in Italia e, ultimo criminale nazista, processato nell’ultimo dei processi celebrati a partire da quello di Norimberga del 1946.

Quando entrarono i giudici la piccola aula era quasi vuota; c ‘erano l’ex capitano, il suo avvocato Velio Di Rezze e alcuni cronisti. Sorprendentemente il Tribunale aveva ordinato ai Carabinieri di impedire l’accesso in aula durante la lettura della sentenza a chiunque, tranne ai legali e ai giornalisti. Un brutto segnale per i parenti delle vittime e per i rappresentanti della comunità ebraica di Roma ammassati l’uno sull’altro, quasi in 300, nello stretto corridoio che conduce all’aula delle udienze. Quanti si trovavano in quel luogo erano parenti delle vittime dell’eccidio, in gran parti figli ormai più vecchi di quanto fossero stati i loro padri all’epoca della strage, oppure nipoti. Certo, quando nel maggio del 1948 era cominciato il processo a Herbert Kappler, l’uomo che organizzò, preparò e condusse la strage, c’erano le vedove, le madri e i padri degli italiani assassinati mentre Priebke viveva tranquillo a Vipiteno al numero 25 di via Diaz con la moglie Alicia Stoll e i due figli. Nella cittadina del Sudtirolo ci rimase, indisturbato, dal 2 gennaio del 1947. O, forse, come scrive Robert Katz lo studioso americano che più di ogni altro ha ricostruito la tragedia delle Ardeatine,“quel periodo lo trascorse, come gran parte dei nazisti all’epoca latitanti, nascosto in un monastero in attesa del suo turno di lasciare l’Europa. Che arrivò nell’ ottobre del 1948 quando a Genova si imbarcò sul piroscafo San Giorgio che attraversò l’Atlantico. “Voglio ringraziare la Chiesa cattolica per il suo aiuto” dirà in una intervista rilasciata al quotidiano “Clarin” di Buenos Aires il 22 maggio del 1994. E’ vero, quelli erano i mesi cruciali della “guerra fredda”; forse in qualche centro nevralgico occidentale si pensò che in caso di uno scontro con l’ Unione Sovietica si potevano richiamare in servizio attivo quanti erano stati nelle SS perché loro sapevano come trattare i russi mentre alcuni personaggi, pervasi dall’ ignobile desiderio di seppellire il ricordo di crimini contro l’umanità e di fronteggiare i comunisti, si adoperavano per aiutare i criminali di guerra. Come di certo fece un fascista di Brescia, penultima città dove Priebke prestò servizio.

Passò, per breve tempo, per Roncegno in Valsugana divenuto centro operativo della lotta antipartigiana e da dove, nel settembre del 1944 partì una autocolonna composta da militi germanici e plotoni del Corpo di Sicurezza Trentino per un rastrellamento di partigiani sul Grappa. Fu la Corte d’Assise di Trento a ricostruire l’orrore subito da Beatrice Giaccone, staffetta partigiana di Cismon di Grappa catturata in Valsugana, portata a Roncegno, seviziata, stuprata e uccisa con un colpo alla nuca dal tenente delle SS Joseph Feuctinger che abbandonò quel corpo straziato a Levico. Al processo per quel delitto, celebrato appunto a Trento nel 1947, comparve come teste Herbert Kappler già condannato all’ergastolo per la strage alle Fosse Ardeatine. In una udienza si accennò anche a Priebke ormai irreperibile e all’inizio degli anni Sessanta dichiarato ufficialmente scomparso mentre a Bariloche e con il suo vero nome, si preparava ad aprire il Vienna Delicatessen un emporio di prelibatezze culinarie. Nel maggio del 1980 tornò con la moglie a Roma; si fermò a Napoli, Sorrento, Capri e trascorse due settimane in Alto Adige come raccontò nel 1966 al settimanale “Oggi” spiegando di essere entrato in Italia come turista, con il suo vero nome e in possesso di passaporto tedesco.

Storia e leggende si accavallano sulla fuga, o il trasferimento, dalla Germania di criminali di guerra. La più curiosa riguardano il sommergibile U-530 della Kriegsmarine che comandato dall’ Oberleutnant zur See Otto Wermuth - prese il comando nel gennaio del 1945 quando la guerra stava per finire - e dell’U-977 comandato da Heinz Schäffer. Le due navi da guerra attraversarono l’Atlantico per emerge nel Mar della Plata. Ancora si sostiene che a bordo di uno dei due battelli, oltre a molto oro, ci fossero Hitler e la sua amante Eva Braun. Leggende dure a morire. Di certo c’è solo che l’Argentina ospitò, proteggendoli, molti criminali nazisti.

Priebke, grazie all'assistenza di alcuni preti altoatesini fra i quali Johann Corradini parroco a Vipiteno e Franz Pobitzer di Bolzano e del Vicario generale della diocesi di Bressanone Alois Pompanin, venne battezzato. Appunto il battesimo era un atto indispensabile per ottenere il “foglio di via” per l’Argentina, il Cile, il Paraguaj, insomma il limbo di nazisti. Da ricordare che papa Giovanni Paolo II, rivolgendosi a Berlino agli ebrei tedeschi, disse che furono troppo pochi i cattolici che si opposero ai nazisti; di certo furono molti quelli che li aiutarono a salvarsi. Aleggiava ancora il culto o meglio, il fascino della Grande Germania e nel clero, molti temevano il “bolscevichismo” e l’idea di vedere i cavalli del cosacchi abbeverarsi nelle fontane di Roma.

Ma dal primo agosto del 1996 Priebke era diventato, per dettato della sentenza, un ex imputato, un uomo libero mentre le famiglie dei martiri della citate Fosse si sentirono traditi due volte: per essere stati allontananti dall’aula al momento della lettura della sentenza e soprattutto dalla sentenza stessa. E quando capirono cosa era successo, e non fu facile apprenderlo perché il televisore a circuito chiuso installato in un’angusta saletta e con un volume tenuto al minimo non permetteva di capire cosa fosse successo, scatenarono la rabbia che andò aumentando. Scrissero il “Messaggero” e Robert Katz l’autore di “Morte a Roma”  la ricostruzione eccezionale e fondamentale della strage, libro tradotto in otto lingue, che il sindaco di Roma Francesco Rutelli “ordinò che al tramonto le luci di tutti i celebri monumenti della Capitale restassero spente con la sola eccezione del Mausoleo delle Fosse Ardeatine, teatro del crimine perpetrato anche da Priebke. Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro espresse pubblicamente la sua solidarietà alle famiglie delle vittime, il Vaticano si disse amareggiato perché “crimini tanto atroci non possono essere prescritti per legge”. Scese la sera su una Roma immersa nel buio e sul tribunale militare assediato con i giudici, l’imputato assolto e il suo avvocato che non potevano uscire. Si pensò  di farli scappare da una finestra con un’autoscala dei vigili del fuoco ma i giudici respinsero la proposta perché troppo umiliante.

Intanto cresceva con l’indignazione per quella sentenza, il discredito per la magistratura italiana ma, manifestando la sfiducia verso il tribunale romano, le autorità politiche di Dortmund avevano emesso un ordine di cattura contro l’assolto-imputato per sollecitane l’estradizione decisi a processarlo il Germania. Ci furono febbrili consultazioni fra Romano Prodi all’epoca Presidente del Consiglio dei Ministri, il Ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick e il Presidente Scalfato e Flick si presentò in tribunale per annunciare che l’Italia aveva accolto la richiesta tedesca. I Carabinieri tornarono a circondare Priebke, lo ammanettarono, lo scortarono fino ad un automezzo che lo portò a Regina Coeli. Scrisse Katz: “Quello fu un atto tardivo di poetica giustizia; l’ex ufficiale si trovò nella stessa pigione da cui, all’epoca dell’occupazione nazista della Capitale, decine di innocenti erano stati fatti uscire per essere massacrati nelle Fosse Ardeatine”. Dove Priebke assassinò due Italiani.  

Al processo disse che era stato obbligato a farlo; se si fosse rifiutato sarebbe stato fucilato. Ma il sottotenente delle SS Günther Ammon si rifiutò di sparare e Kappler lo fece uscire dal mattatoio; anche i superstiti del battaglione Bozen rifiutarono in blocco di partecipare alla strage e rimasero nelle soffitte del Viminale, la dove erano acquartierati. Da tempo sappiamo che nessun tedesco è stato né ucciso né internato o imprigionato per aver rifiutato di uccidere ebrei. Sempre al processo raccontò che aveva aiutato gli ebrei. Anche questo è falso. Quando scattò l’ordine di rispondere con una rappresaglia alla strage di via Rasella, “cinquantatre uomini si trovavano in stato di detenzione solo perché ebrei i cui nascondigli erano stati denunciati alla Gestapo dove operava Priebke, ed aspettavano di essere deportati ad Auschwitz”. Scrisse ancora Katz: “In uno degli episodi più sordidi di quei giorni di infamia, un ebreo il cui nome figurava nella lista dei candidati alla morte, fu con discrezione rilasciato dalla Gestapo. Lo sostituì il pugile professionista Lazzaro Anticoli, ebreo di Trastevere, noto nel mondo della boxe come Bucefalo. A rilevare il suo nascondiglio era stata una informatrice, la famigerata Pantera Nera, una donna di nome Celeste Di Porto, anch’essa ebrea, nota per la sua straordinaria bellezza e amante di un ufficiale delle Camicie Nere. L’uomo destinato a morire nell’ecidio e liberato grazie al diabolico scambio, era Angelo Di Porto, fratello di Pantera Nera, che per cinquemila lire vendeva i suo connazionali a Pietro Kock scagnozzo del capo della polizia fascista Pietro Caruso entrambi fucilati a guerra finita.

Nel 1946, Celeste Di Porto braccata dagli agenti del Mossad venne nascosta ad Assise in un convento di suore di clausura dal vescovo Giuseppe Nicolini nato a Villazzano e riconosciuto “Giusto tra le Nazioni” per aver contribuito a salvare più di 300 ebrei e poi nascosta a Trento tra la gente del gruppo dei Focolarini di Chiara Lubich. Sparì dalla città quando qualcuno la avvertì che gli ebrei del Mossad erano sulle sue tracce. Di lei è sparita ogni traccia.

(9. continua)

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