La «Pantera Nera», sfrattata dal convento di clausura in Assisi e accolta dai Focolarini alla Cervara
Il dopoguerra di Celeste Di Porto: prima in carcere, poi in convento, infine accolta da Chiara Lubich, e i giornali dell’epoca le dedicarono molte pagine
La guerra di Liberazione era sfociata in un periodo confuso e di forte sete di giustizia sommaria mentre quella ordinaria dello Stato veniva ristabilita gradualmente. Palmiro Togliatti il leader del Pci e ministro di grazia e giustizia presentò il provvedimento di amnistia giustificato dalla necessità di un “rapido avviamento del Paese a condizioni di pace politica e sociale”...
Si voleva, si doveva, tornare alla normalità e liberando dalle prigioni quei fascisti e quei partigiani responsabili di reati che non avevano avuto conseguenze sanguinose, si cercava di riportare una parvenza di serenità nel Paese devastato e affamato da una tragica guerra.
Così uscirono dalle Mantellate, il carcere femminile di Roma, con Tamara Cerri l’amante quasi bambina di Pietro Koch il feroce torturatore di antifascisti, Celeste Di Porto e quella Elena Hoehn già ufficiale della Gestapo.
Tamara tornò dai suoi genitori; le altre due dovevano sparire dalla città di via Tasso e delle Ardeatine: le rifugiarono in un convento, ad Assisi, nel monastero inviolabile quindi sicuro delle suore di clausura delle colettine, clarisse di rigidissima osservanza nel segno dell’ umiltà e della “stupenda povertà”.
Chi organizzò il trasferimento? Qualche personalità del Vaticano dove la Hoehn aveva operato probabilmente con encomio e dove taluni criminali nazisti avevano ricevuto il viatico che li aveva condotti in Argentina, Cile e in altri luoghi sicuri.
Era l’alba della Guerra Fredda, l’Armata Rossa era a Salisburgo, i soldati di Tito a due passi dall’Isonzo. Forse qualcuno poteva pensare che sarebbe stato utile avere sotto mano quei tedeschi che sapevano “trattare” i sovietici.
Certo, in convento si era al sicuro ma, forse, per l’esuberante Celeste dopo il fasto della conversione avvenuta di fronte alle macchine fotografiche di “Life”, la vita si trascinava nella monotonia per una donna di mondo. La giornata delle suore di clausura prevedeva la meditazione, la preghiera, la solitudine, la povertà, l’obbedienza; si viveva in spazi comuni per mangiare, pregare, lavorare nell’orto o eseguire quegli eccezionali ricami poi venduti; un’ esistenza dominata dal silenzio, segnata dal rintocco di una campana che radunava le monache ora in chiesa, ora nel refettorio o nei luoghi di lavoro, nella cucina dove si preparavano i pasti, nella lavanderia o nei locali dove si lucidavano i reliquiari e tutti gli oggetti sacri.
Una grata separava il convento dal mondo e la madre superiora alla quale andava l’obbedienza, era l’unica deputata a dialogare con l’esterno: i fornitori di derrate, gli acquirenti dei ricami e degli altri lavori di cucito. La Hoehn era allenata all’obbedienza o meglio, alla disciplina che nella Gestapo era ferrea mentre Celeste, la «Pantera Nera», già amante di un caporione fascista poi “signorina” in una casa di tolleranza a Napoli prima di finire in carcere, aveva in mente altre avventure e, forse, poco tollerava quell’ esistenza fatta di mortificazione.
A proposito di case d’ appuntamento. Proprio nell’estate del 1948 l’epoca della massima pubblicità attorno alla figura della Di Porto, la senatrice socialista Angelina detta Lina Merlin presentò un disegno di legge per l’abolizione delle case chiuse, ma la proposta subì in un Parlamento maschilista, un travagliato percorso concluso solo nell’ottobre di dieci anni dopo.
E’ documentato che le vicende della donna del Ghetto riempirono le pagine dei giornali: al processo venne difesa addirittura da Francesco Carnelutti uno dei più eminenti avvocati e giuristi e le cronache del dibattimento ci tramandano brani dell’arringa dove il penalista sostenne che il suo comportamento “era dovuto all'astio che si era creato tra lei e i popolani del ghetto per come era stata trattata da ragazza, sia per la sua bellezza e il suo fare disinibito per l'epoca, sia per le sue modeste condizioni economiche, che la costrinsero a lavori molto umili”.
Nel trapassato remoto si ricordava che le parcelle di Carnelutti erano pari al suo impegno e alla sua fama. Non erano alla portata dell’ imputata; forse pagò la donna della Gestapo che doveva assolutamente tenere segreta la sua identità e il suo passato conosciuti solo da Celeste.
Si insisteva con molta malizia su quella “bellezza sfrontata” descritta dai giornali dell’epoca con un dilagare di superlativi, sul fatto che fosse costretta in un convento e per giunta di clausura, con il giornalista di “Tempo” a scrivere con una probabile forzatura se non addirittura con una invenzione: “Un vecchio ebreo del Ghetto mi diceva di aver visto la prima volta Pantera Nera ragazzina di 15 anni, con una vestina cortissima e già donna mentre portava in braccio un cestino d’uova. Ancora a dieci anni di distanza il desiderio usciva da questo uomo, come dalla bocca di un bevitore il fiato ardente di vino”.
La fantasia del giornalista Laurenzi si scatena ancora raccontando che “a tredici anni si era fatta donna come accade alle donne dei paesi meridionali, precocissime nello sviluppo fisico e nell’istinto d’amore” e dopo aver aggiunto che “non s’era mai vista nel Ghetto una ragazza più bella e di una innocenza più provocante della sua”, raccontava “che i gagà facevano l’occhio tenero” a quella donna del Ghetto, attingendo a tutti gli stereotipi in auge nel fascismo ma non ancora tramontati.
Né si poteva pretendere che dopo quasi vent’ anni di indottrinamento coatto si potesse di colpo cancellare quanto forzatamente appreso, magari scritto e riscritto nel solco del giornaliero dettato del Minculpop, il ministero della cultura popolare, che da Roma dirigeva tutti i quotidiani, trasmettendo veline, ordinando titoli, l’ uso degli aggettivi e dove collocar e l’ immancabile fotografia del Duce.
L’articolo ci racconta com’erano – ma forse è meglio pensare come credeva di vederli l’inviato di “Tempo” – quei giovanotti chiamati “i gagà del Ghetto [che] sono di genere speciale ed entrano in azione la sera, reduci, per la maggior parte, d’aver girovagato durante il giorno con i loro carrettini di ambulanti. La sera indossano pantaloni strettissimi senza piega, camicie aperte sul petto, di solito bianche e molto sporche, con le maniche arrotolate al gomito, calzano scarpe di camoscio con tacco alto, ungono spaventosamente i bruni capelli lanosi, lunghi sulla collottola”. Dopo questa descrizione che raccatta il verbo fascista, eccone un’altra a raccontarci i segni premonitori di quel farsi cristiana che parrebbe dettata da un personaggio di Chiesa, magari quel padre Raffaele Evangelisti presente nelle fotografie scattate dal fotografo di “Life”.
“Cominciando a frugare nella sua infanzia” in cerca dei citati avvenimenti premonitori, “ci si imbatte nel padre di lei, Settimo, un er cristone, un gigante più alto e più grosso di Piazza Giudia [che] frequentava la sinagoga e detestava i simboli del cristianesimo. Narrano un episodio secondo cui Celeste, bambina di nove anni, si chinò per istrada a raccogliere una medaglietta della Beatissima Vergine e il padre colpì la bambina sulla guancia bestemmiando da buon israelita, il nome della Madonna. Celeste, in lacrime , seguitò a stringere la medaglietta nel pugno tanto le piaceva”. Così ha scritto Carlo Laurenzi e il dubbio sulla autenticità di questa storia è doveroso.
Ma ecco un nuovo segno del destino. “Un’altra volta l’attenzione di Celeste fu attratta da un’ immagine del Bambino Gesù, splendidamente vestito di broccato con sulla testa una corona d’oro, la tunica ornata di fiori d’argento tempestata di diamanti”. A nessuno era venuto in mente che Gesù, da bambino, era identico a tutti i bambini; comunque l’immagine colpì la giovanissima Celeste che avrebbe esclamato: “Com’è ricco quel ragazzino. Dicono che il padre la redarguisse con durezza. Il confessore, più tardi, ha stabilito che l’immagine ammirata da Celeste è quella del Divin Bambino di Praga, cui la neofita tributa oggi una devozione particolare”.
E’ a questo punto che il settimanale racconta la famiglia Di Porto e qui, sprofondando nel becero, si capisce come le leggi sulla razza avevano creato l’immagine dell’ebreo come “specie inferiore” o come “specie parassita” che si doveva estirpare in modo definitivo. Perché se questo era il dettato nazista, quello fascista lo scimmiottava. Dunque,“Settimo Di Porto esercitava l’arte tipica del Ghetto, quella del merciaiolo ambulante. I suoi traffici prosperavano al punto ch’egli potè permettersi di introdurre in casa sua una domestica cristiana, lusso straordinario per una famiglia del Ghetto. Ciò non toglie che la casa dei Di Porto in via della Reginella fosse misera ed umida, senza gusto di suppellettili comode, quasi una stamberga. In quattro stanze minuscole viveva Settimo Di Porto con la moglie, gli otto figli, di cui cinque femmine e la domestica ariana”. Fatto questo molto improbabile visto che le leggi razziali proibivano agli ebrei di avere domestici “ariani”.
Prosegue l’articolo illustrando la figura della domestica “ariana… Questa povera donna veniva dalla campagna umbra e il cuore le si gonfiava al ricordo del santuari agresti e quando poteva, andava raccogliendo immaginette sacre; sempre, passando dinnanzi alle chiese, si faceva il segno della croce o entrava per una visita. Celeste udì da lei le prime parole di carità, la prima ingenua apologia di Gesù. Il padre non appena si accorse dei colloqui tra la figlia e la serva (sic!) arse d’ira e licenziò la malcauta”.
Era il 1948 ed erano trascorsi dieci anni dalle leggi razziali annunciate da Mussolini a Trieste, insegnate a scuola, più o meno blandamente accolte dagli italiani almeno fino a quell’ 8 Settembre del Quarantatrè quando l’arrivo dei tedeschi impose l’odio, o forse solo la voglia di fare denaro, che convinse diversi italiani a consegnare gli ebrei ai germanici non potendo sapere che quelle persone “denunciate” non venivano trasferite in Germania per lavorare, ma per essere uccise nelle camere a gas. Così l’articolo riporta testualmente, e nessuno si indignò: “Chi non conosce il Ghetto, non può capire questo atteggiamento. Siamo avvezzi ad incontrare ebrei assimilati, pieni di condiscendenza e d’ironia i quali non chiedono di meglio, in ultima analisi, che di passare per ariani. Tale tepidità è comprensibile alla luce delle persecuzioni e degli ostacoli che la borghesia ebraica ha trovato nel suo cammino verso la parità con la borghesia nativa. Ma poi il popolo del Ghetto ha continuato ad avvampare di superbia. Qui erano i nostri cancelli, mi dicono nel Ghetto; cent’ anni fa, al tramonto, non potevamo neanche uscire in via Arenula. Adesso escono per i loro commerci, invadono da un capo all’altro la città, ma la sera eccoli tutti qui tra le loro mura, gli uomini parlano in crocchi e le donne guardano dalle porte delle case”.
Nel maggio del 1948 dalle macerie della guerra e dall’orrore dei campi di sterminio era nato lo Stato di Israele e con quella nascita, su Celeste si andava addensando un altro guaio: l’estradizione . Si legge sui giornali italiani dell’epoca: “A Roma, molta gente varca il cancelletto di via Reno 2, la sede dell’Agenzia Ebraica; sono in massima parte giovani dell’età delle armi. Quasi tutti hanno le teste ricciolute e il naso adunco”. Certo, il fascismo era definitivamente finito il 25 aprile di tre anni prima, ma i giornalisti che lo avevano servito, continuavano a custodire nella penna stereotipi di un vecchio ma non soppresso linguaggio. E così la kippah diventa “stramba cuffietta”, il cappello a larghe falde ha “tracce di unto” e l’ebreo “emana odore rancido”. Ma c’ è anche il giornalista Vincenzo Talarico a scrivere: “Uno alla volta ricompaiono nei giornali firme di pubblicisti [già] appartenenti all’Ovra ( l’Opera volontaria di repressione antifascista, la polizia segreta del regime nata nel 1927, nda). L’altra mattina era il turno di uno scrittore sportivo mobilitato per il Giro d’Italia” e via elencando il passato di questi “irrequieti personaggi” che il Partito Nazionale Fascista, il PNF appunto, ave va sempre pagato a borsa quasi sempre aperta.
Si pubblicano le fotografie di ebrei in attesa all’aeroporto di Ciampino per volare a Tel Aviv, dei manifesti che ricoprendo i muri dell’Agenzia Ebraica incitano gli israeliti all’arruolamento e alle lotta con la frase “l’Haganah vi aspetta”. Il settimanale “Tempo” intitola: “Da Roma partono guerrieri ebrei” senza accennare a quegli ebrei che quattro anni prima, rastrellati da Herbert Kappler , erano partiti per il tragico viaggio senza ritorno organizzato dalle SS e dai rimasugli del fascismo romano.
C’ è anche la fotografia del rabbino Isacco Levyn Mayer “ministro senza portafogli dello Sato di Israele, appena giunto all’aeroporto di Roma dalla Palestina. In un breve discorso il rabbino aveva reclamato il risarcimento di almeno una parte delle ricchezze ebraiche saccheggiate e la punizione non soltanto dei criminali di guerra, ma anche di coloro che avevano eseguito gli ordini sanguinari”. Certo, Israele era totalmente impegnato in una guerra dalla quale dipendeva la sua sopravivenza. Ma non abbandonava la caccia ai suoi nemici e fra i collaborazionisti dei nazi fascisti c’era Celeste Di Porto la donna forse più ricercata in quell’epoca. La Repubblica Italiana non avrebbe potuto negare l’estradizione e un processo a Tel Aviv sarebbe stato drammatico per la collaboratrice delle SS di Kappler. I superstiti di Piazza Giudia sapevano benissimo che dopo la conversione viveva nascosta, “perseguitata dall’odio della sua razza in una cittadina del nord nel duro e dolce paesaggio delle montagne”, ma il segreto del luogo era custodito da monsignor Giuseppe Placido Nicolini nato a Villazzano e Vescovo di Assisi e dalla madre superiora del convento di clausura, il rifugio di Celeste.
Tutti i quotidiani – la televisione era di là da venire – diedero molto spazio alla mobilitazione degli eserciti arabi che muovono verso il nuovo stato arroccato attorno a Tel Aviv. Una fotografia mostrata Ibn Saud il fondatore e primo sovrano del regno dell’Arabia Saudita assieme a Faruk il re dell’Egitto, i due personaggi che guideranno la Legione Araba composta da egiziani, giordani, siriani contro lo stato ebraico. E c’ è un’ altra fotografia. Ritrae ancora Ibn Saud e la didascalia recita “fotografato a bordo di una petroliera americana di 25.000 tonnellate ( un mostro per l’epoca, nda) appartenente alla Arabian-American Oil Company. Enormi interessi legano gli Stati Uniti alla Arabia Saudita. Esiste fra l’altro un contratto che assicura ad Ibn Saud venti milioni di dollari all’anno. Anche Hussein ibn Talad di Giordania incassò per anni dal Governo inglese duecentomila sterline mensili, senza dare quasi nulla in cambio”. Nel 1948 non lo si poteva capire, ma petrolio e dollari cominciavano a condizionare, e lo faranno per mezzo secolo, governi e popoli dalla Libia allo Yemen, dall’Arabia alla Siria fin oltre la Persia.
E’ guerra, e sarà durissima, fra arabi ed ebrei. Da un articolo del “Corriere della Sera”: “Le forze dell’Haganah, dipendenti direttamente dal dottor Ben Gurion presidente dell’esecutivo sionista e primo ministro del nuovo stato ebraico, sono stimate a circa 120.000 effettivi dopo la mobilitazione di tutti i ragazzi, maschi e femmine, dai sedici ai diciotto anni. E poi ci sono le forze dei sabotatori della Irgun Zvai Leuimi, la spietata organizzazione terroristica sionista che dal 1931 al 1948 aveva fronteggiato il Regno Unito negli anni del mandato britannico della Palestina in un crescendo di attentati disastrosi seguiti da parte inglese, da feroci rappresaglie. La Irgun è responsabile, il 31 ottobre del 1946, dello spettacolare attentato all’ambasciata britannica a Roma. Si apriva nella zona di Porta Pia, in una villa appartenuta alla famiglia Torlonia. L’edificio venne completamente distrutto ma, per fortuna, non vi furono vittime . Da ricordare che dopo il 1945 la Irgun venne comandata da Menacher Beigjn, avvocato polacco, superstite del Ghetto di Varsavia che aveva combattuto contro reparti delle SS. Ed era sopravvissuto.
Ma quelle notizie che occupavano le prime pagine dei quotidiani arrivavano smorzate nei silenti luoghi del convento che, giorno dopo l’altro diventavano sempre più soffocanti per la neo convertita. Si racconta che l’esuberante bellezza di Celeste guastata, ma non troppo, dalla dieta a base di patate della mensa delle Mantellate e probabilmente anche da quella del convento, avrebbe importunato le sorelle di sicura fede e di conclamata modestia. Ma questa è una facile leggenda. E invece certo che dal quel monastero inviolabile e sicuro, venne sfrattata in tutta fretta per essere trasferita in auto a Trento, in via Cervara, nel “fogolar” di Silvia Lubich che aveva scelto il nome di Chiara in ossequio di Chiara d’Assisi, seguace di Francesco d’Assisi fondatrice dell’ordine delle Clarisse dichiarata il 17 febbraio del 1958 patrona delle telecomunicazioni e della nascente televisione da papa Pio XII.
E’ documentato che, sollecitato dalla madre superiora, il vescovo Nicolini si presentò al convento con un’ auto guidata da un autista. Sulla vettura salirono Celeste, la Elena, la superiora e un’altra suora. Da Assisi a Trento, dal portale del convento all’ingresso del “fogolar” nel “duro e dolce paesaggio delle montagne”.
A Trento appunto, la cittadina del Nord che l’ inviato di “Tempo” non volle citare.
(19, continua)