Storia di Elena Hoehn
Nella serafica tranquillità della dimora dei “focolarini” venne accolta una donna tedesca molto particolare: quella Elena Hoehn che dopo l’8 Settembre del 1943 entrava quando voleva nella caserma- prigione-mattatoio di via Tasso a Roma dove erano acquartierate le SS di Herbert Kappler e di Erich Priebke, i due principali personaggi di quel luogo infame. Hoehn che proveniva da Lipsia e negli anni del secondo conflitto mondiale viveva a Roma “dove conduce una vita di prim’ ordine e frequenta industriali, personaggi potenti, monsignori, ministri, il Pontefice e personaggi comodi e scomodi” . Insomma nella Capitale dell’Impero fascista, e anche in Vaticano, si muoveva felice e felicemente accolta, all’ ombra della svastica. Parlava inglese, francese e un fluente italiano e c’ è da credere che quella donna bella, disinibita, tedesca in un’ epoca che il camerata germanico era un conteso lasciapassare, fosse la padrona non solo dei salotti romani, ma dei cuori e dei segreti di molti italiani ritenuti illustri.
Nelle pagine scritte dal focolarino Armando Droghetti , che su quella tedesca della Slesia ha firmato con il titolo “Elena Hoehn protagonista della storia italiana - l’affaire Frignani e Mussolini, la tragedia delle Fosse Ardeatine e l’amicizia con Chiara Lubich” una corposa monografia ricca di misticismo, ma molto difficile da accettare là dove si legge che “dopo l’ 8 Settembre del 1943 con Roma occupata dai nazisti, la Hohen diede rifugio in casa sua al colonnello dei Carabinieri Reali Giovanni Frignani, ossia all’ Ufficiale dell’Arma che aveva arrestato, per ordine del Re Vittorio Emanuele III, Mussolini il 25 luglio e che ormai era braccato dai nazifascisti per questo tradimento. Frignani aveva giurato fedeltà al Re e non al Duce. Eppure lo stesso Mussolini, ripresa baldanza dopo la rocambolesca liberazione da Campo Imperatore, voleva la sua testa. A casa di Elna Hoehn, Frignani poté organizzare la resistenza dei Carabinieri fedeli ai Savoia[è creò] una rete di contatti gestita dal capitano Raffaele Aversa e dal maggior Ugo De Carolis. In clandestinità, sempre grazie ad Elena Hoehn, il colonnello Frignani fu in grado di recuperare da un luogo segreto il diario di Claretta Petacci, l’ amante di Mussolini. Frignani si fidava di Elena al punto di incaricarla di prendere contatti con il capitano Raffaele Aversa, l’altro ufficiale che aveva arrestato il Duce, per organizzare il Fronte clandestino di resistenza dei Carabinieri”. Inoltre aveva ordinato al maresciallo Alaimo “di dissotterrare dal giardino della caserma [dell’Arma]dei Parioli, un pacchetto che conteneva molte lettere inviate da Mussolini a Claretta Petacci” e che, si può supporre, non contemplassero solo espressioni d’amore. E che, comunque, era un documento decisamente importante.
Tutto andò per il meglio fino al giorno in cui la Gestapo, le SS e la polizia fascista entrarono nella casa dove si trovava Elena, arrestando tutti e sequestrando molto materiale legato alla nascente Resistenza romana. I tre Carabinieri furono portati in via Tasso; “Elena, che era cittadina tedesca venne liberata quasi immediatamente”. Liberata solo perché tedesca oppure perché lei aveva organizzato la micidiale trappola?
E’ certo che i nazifascisti arrivarono quando tutti e tre gli ufficiali erano con la Hohen e dove era stato portato poco prima dell’irruzione anche il diario dell’amante del Duce. Un caso amaro oppure imprevedibile o una coincidenza sfortunata come si legge nel libro di Droghetti? Ancora da quello scritto: “Elena avrebbe speso tutte le sue energie per ottenere la liberazione dei tre Carabinieri rivolgendosi per due volte a Pio XII che assicurò il suo personale intervento. Ma proprio quando si stava sperando per il meglio, avvenne la tragedia: l’attentato di via Rasella che falciò il battaglione Bozen e i tre Carabinieri finirono alle Fosse Ardeatine”. E’ credibile questa tesi? Arrivò veramente, addirittura per due volte in pochissimi giorni al Pontefice?
Se ci fu quell’ incontro – due in pochi giorni sembrano però eccessivi – fu probabilmente attraverso suor Pascalina, tedesca di Monaco di Baviera, la segretaria di Papa Pacelli e protagonista di una vita importante accanto al Pontefice cominciata addirittura nel 1917. Era l’anno più tremendo della Grande Guerra; la giovane suora stava partendo come infermiera per il Cile quando nel monastero di Einiedelln conobbe Pacelli, Nunzio in Baviera che, sofferente, stava trascorrendo in quel luogo un periodo di riposo. La religiosa gli consigliò particolari farmaci e una dieta: migliorato probabilmente anche nell’umore, Pacelli chiese alla superiora del convento di consentire a suor Pascalina, al secolo Josephine Lehnert che aveva 23 anni, di lasciare la comunità per seguirlo nella nunziatura di Monaco dove divenne la sua governante, confidente e segretaria. Poi il 19 aprile del 1919 accadde un fatto che segnò profondamente la vita del futuro Pontefice: un gruppo di rivoluzionari spartachisti, i “bolscevichisti” come si diceva all’ora, irruppe nella nunziatura e armi alla mano minacciò di morte il presule. Suor Pascalina si mise davanti a Pacelli, difese con il proprio corpo il nunzio e lì rimase fin quando gli attentatori se ne andarono. Un gesto eroico che legò totalmente Pacelli alla suora. E’ facile credere che Elena Hoehn e Pascalina si siano conosciute in Vaticano. Tutte e due tedesche con ruoli importanti, chiaramente anticomuniste, probabilmente credevano in Hitler. E’ facile pensare che tutte e due fossero apertamente contro il mondo sovietico e gli italiani che avevano tradito l’alleato germanico.
Però appare molto strano leggere nelle pagine di Droghetti come “la vicenda di Elena Hoehn si incrocia con quella di Giovanni Frignani” . La donna tedesca frequentava la casa dove l’ufficiale, braccato dalla Gestapo, dalle SS e dai fascisti assetati di vendetta, si era rifugiato. Tutti a Roma conoscevano il proclama del feldmaresciallo Albert Kesserling: sarebbero stati fucilati quanti nascondevano, ospitavano o aiutavano appartenenti ad un esercito nemico o erano partigiani. Si uccideva, aggiunge Droghetti, chiunque disobbediva agli ordini dei tedeschi e Frignani, nonostante i pericoli, stava addirittura organizzando la resistenza fra i Carabinieri che non avevano aderito alla repubblica di Salò. Ancora da Droghetti: “Elena, convinta dell’assoluta innocenza di Frignani, cercò dei contatti presso le autorità militari tedesche per convincerle della buona fede dell’ufficiale” e anche questo dimostrerebbe la dimestichezza della donna con i comandanti germanici. Certo, lei era tedesca. Ma questo non basta a dimostrare una familiarità che pare eccessiva e anche sospetta.
Bisogna risalire alla tarda primavera del 1943. Il Regio Esercito aveva subito un’ altra durissima sconfitta in Libia e il 10 luglio gli angloamericani erano sbarcati in Sicilia uccidendo - in verità questa tragedia è stata a lungo taciuta - anche quegli italiani che lietamente si arrendevano agli americani mentre formazioni sempre più fitte di aerei americani e inglesi bombardavano di giorno e di notte le nostre città (Trento verrà colpita per la prima volta il 2 settembre di quell’ anno). Re Vittorio Emanuele III che, sempre, aveva avvallato le scelte scellerate del Duce, cominciò a pensare di scindere le sorti dell’ Italia e soprattutto le sue, da quelle del fascismo e della Germania senza tener conto che le forze armate tedesche che potevano ancora vincere la guerra, erano ampiamente dislocate sul territorio nazionale. Dino Grandi che era stato ministro guardasigilli e presidente della Camera dei Fasci sollecitava l’intervento del Re per defenestrare Mussolini e la svolta avvenne, dopo quattro anni e mezzo di inattività, nella improvvisa seduta - l’ultima - del Gran Consiglio del Fascismo cominciata nel pomeriggio del 24 luglio e finita alle 2 del 25 luglio, data fondamentale nella storia d’Italia.
In quelle ora convulse mentre il Duce veniva messo – per la prima volta – in minoranza fu approvato l’ordine del giorno di Grandi che accusava Mussolini di aver voluto la guerra, che l’Italia stava perdendo, contro il volere del popolo italiano e a fianco della Germania nazista. Diciannove gerarchi che mai avevano ostacolato la marcia del capo del fascismo, che era anche la loro marcia ricca di onori ma anche di danari votarono contro il Duce. Quei gerarchi, comprendendo che si era arrivati ad una svolta, si misero di traverso a quello che era stato la loro successo trionfale quando nel 1939 e fino al 1941 la stragrande maggiorana degli italiani vestiva trionfante la camicia nera nella certezza che, vinta la guerra, Roma con Berlino e Tokio avrebbero dominato il resto del mondo. Si era certi che gli ebrei sarebbero stati sterminati, gli slavi sarebbero diventi i nuovi schiavi, l’Ucraina il granaio di casa ed il petrolio di Baku il serbatoio dell’Europa ariana. Fra quanti approvarono quel documento vi era il conte Galeazzo Ciano che aveva sposato Edda, la figlia di Mussolini e che, come ministro degli Esteri aveva trionfalmente firmato a Berlino, davanti ad Hitler il famoso quanto tagico “patto d’acciaio”, e aveva applaudito all’entrata in guerra dell’Italia e prima ancora aveva mostrato il suo entusiasmo a quella di Abissinia, di Spagna e alla “conquista” dell’Albania.
Il Duce venne arrestato per ordine di Vittorio Emanuele da un plotone di Reali Carabinieri comandati dal capitano Raffaele Aversa, dal colonnello Giovanni Frignani e dal capitano Paolo Vigneri. Pochi giorni dopo, era la sera dell’8 Settembre altra data fondamentale nella storia di casa nostra, l’Italia si era arresa agli Alleati mentre il Re e lo Stato Maggiore dell’Esercito fuggivano da Roma per ricreare il regno a Brindisi. Da ricordare che in quella fuga nel pieno della notte, Pietro Badoglio, il generale del Sabotino, rivoltò i polsini del suo cappotto per nascondere i gradi.
Hitler reagì violentemente al tradimento degli italiani, il secondo dal maggio del 1915, questa volta però ben più grave perché commesso in piena guerra. Il Re aveva abbandonato il “grande camerata germanico” come aveva scandito Mussolini nel delirante applauso del popolo che lo ascoltava nelle adunate oceaniche. E venne abbandonato anche il popolo e l’Esercito. Mussolini, arrestato ma mal custodito, venne liberato dai tedeschi, portato a Rastenburg dove Hitler lo convinse, ma sarebbe forse meglio dire lo costrinse, a creare la tragica repubblica di Salò altrimenti la vendetta dell’ osannato “camerata” si sarebbe abbattuta in maniera devastante su alcune città del nord, soprattutto su Milano.
La guerra finisce, il fascismo crolla. A Musso sul lago di Como una colonna germanica consegna Mussolini ad una pattuglia di partigiani per avere libera la via della ritirata su Merano e con lo sfondo di questi avvenimenti si concretizza fra Silvia (Chiara) Lubich e la donna tedesca, la profonda amicizia, o meglio “l’intesa immediata e perfetta” nata e cresciuta nel segno della Fede e di “Cristo Abbandonato”, quel “ca” che compare di frequente nelle molte lettere indirizzate da Silvia alla Elena. E’ una pagina molto difficile, controversa e foriera di dubbi. Forse non conosceremo mai il grado ricoperto nella Gestapo, né sapremo se quella donna vissuta cento anni esatti militò davvero nelle file della GS; ma è certo che la Hoehn aveva conosciuto e frequentato Celeste Di Porto, la Pantera Nera, la donna accusata di aver venduto gli ebrei del Ghetto di Roma ai nazisti. Gli incontri avvenivano in via Tasso; l’accesso a quella caserma era vietato anche ai fascisti di conclamata fede; quasi di sicuro il passato militare della Hoehn era totalmente sconosciuto alla Lubich quando l’accolse, forse il primo incontro avvenne a Tonadico, nel nascente Movimento dei Focolarini. Neanche Armando Droghetti, pur accostandola agli aguzzini germanici, accenna al suo passato nelle file della Geheime Staatspolizei, la spietata polizia di stato del nazismo. E’ possibile pensare ad un reciproco aiuto fra la Pantera Nera e la Hohen. Le due donne che paino prive di scrupoli, si conoscevano molto bene, si erano ritrovate, loro malgrado nel carcere delle Mantellate, l’una sapeva cosa aveva fatto l’altra e tutte e due temevano una severa condanna. Può essere facile pensare ad un reciproco patto. Tennero segreti ki particolari del loro passato e sbandierarono solo l’illuminazione della Fede.
Di Elena Hoehn, a parte quelle scattate attorno agli anni Sessanta che mostrano un’anziana, sorridente signora, c’ è solo una fotografia a ritrarla nero vestita e con il volto coperto da un velo di pizzo, nero anche quello, in piedi e alle spalle di Celeste Di Porto, la Pantera Nera del Ghetto di Roma che indossa un abito tutto bianco nel giorno del battesimo, della cresima, insomma nel momento che la vide abbracciare ad Assisi la religione cattolica. Momento celebrato e benedetto da Giuseppe Placido Nicolini nato a Villazzano, Vescovo di Assisi, riconosciuto dallo Yad Washem di Gerusalemme, Giusto tra le Nazioni per aver salvato più di trecento ebrei nascondendoli nei monasteri dell’ Umbria. E così appare quanto meno sorprendente contemplare un uomo che salvò gli ebrei da Auschwitz, mentre benedice una donna che aveva indicato ai fascisti molti ebrei di Roma poi assassinati in quella landa desolata e accogliere quella Hoehn che nella migliore delle ipotesi era stata una spia al servizio delle Schutzstaffel. Certo, c’era la forza del perdono, la potenza di “Life” il famoso rotocalco made in Usa e della Associated Press, altra forza giornalistica in quegli anni di fine degli anni Quaranta. Ma, francamente, restano enormi perplessità.
Da ricordare l’articolo scritto da Silvio Bertoldi, inviato del “Corriere della Sera” il 28 ottobre del 1994. “Nel suo ufficio di via Tasso, Kappler stava compilando l’elenco dei 330 italiani di cui Hitler aveva chiesto la morte per rappresaglia alla strage dei 33 poliziotti” – quelli del Bozen- “uccisi in via Rasella. Gli mancavano 50 nomi e li chiese al questore di Roma Pietro Caruso. Costui, esitante, si rivolse al ministro degli Interni Buffarini Guidi che gli rispose quel “daglieli, daglieli se no chissà cosa fanno Caruso racimolò quanti più infelici poté, ma non bastavano. Disse Kappler: Allora trovate qualche ebreo. Caruso si rivolse a Celeste Di Porto che gli fornì 26 [ebrei] tutti poi eliminati con un colpo alla nuca, nel buio della cava, cinque alla volta…”. Davvero quella donna fu in grado di fornire a Kappler 26 nomi di ebrei nel giro di poche ore. Tanti davvero se si considera che nel rastrellamento del 16 ottobre del 1943 vennero rastrellati in 1259?
Si narra che “Pantera Nera” fu l’incubo e la vergogna degli ebrei romani che la vedevano passare spavalda per le strade del Ghetto con il suo amante Vincenzo Antonelli un capo manipolo nella Roma in mano ai tedeschi, al quale indica gli ebrei che casualmente incontra e li fa catturare. Ancora dall’articolo di Bertoldi “è certo che Celeste si iscrive al fascio repubblicano e si offre alla Gestapo, a Kappler, al suo vice Priebke per denunciare gli israeliti a lei noti uno per uno, in cambio di danaro della vita salva. L’articolo di Bertoldi ispiro il romanzo “Stella di piazza Giudia” contestati da suor Giovanna Mandelli che il 3 ottobre del 1995”…non è la vera storia di Celeste, ma solo il resoconto di accuse infondate contro di le i e che, a quanto pare, non sono ancora cancellate dopo più di 50 anni. Sarebbe ora che su Celeste si ristabilisse la verità”. E’ vero che venne accolta dal rabbino capo Elio Toaff “con molta gentilezza”? Conclude sorella Mandelli: “Purtroppo di quella grossa torta di accuse Celeste ha avuto la parte più grossa. Ma poiché si è fatta cristiana deve mettere in pratica il perdono delle offese. E’ quello che ha fatto”.
Restano i dubbi a sovrastare la folgorazione della fede. Con una certezza: attraverso il vescovo Nicolini Elena Hoehn incontrò la Lubich. Dalla quarta di copertina del libro di Armando Drogetti: “L’altro elemento fondamentale nella vita della Hoehn fu l’incontro con Chiara Lubich agli albori del Movimento dei Focolari. Con la giovane maestra trentina l’intesa fu immediata e perfetta. Partecipò alla vita del Movimento….”. Addirittura per Chiara Lubich “Elena divenne l’equivalente di quello che Jacopa de’ Settesoli fu per Francesco d’Assisi, per la sua fede ardente e il suo entusiasmante calore”. Ma Chiara cosa sapeva della Hoehn?
E’ meglio ricordare che nessuno a Roma, nemmeno in Vaticano, ebbe sentore della rappresaglia nazista alla strage di via Rasella. Fu un’azione fulminea. Il tempo di trovare in via Tasso e a Regina Coeli il numero degli ostaggio – dieci per ogni tedesco uccisione – tradurli nella tragica cava e assassinarli – per comunicare il giorno dopo con un testo stringato apparso su tutti i giornali pubblicati dove c’era la Repubblica di Salò, l’avvenuta uccisione di “comunisti e badogliani”. Non è vero che i tedeschi fecero affiggere a Roma i manifesti che chiedevano agli attentatori di costituirsi per evitare rappresaglie; che colpevolmente il Pontefice non si mosse: non conosceva, non poteva conoscere l’infernale progetto di Hebert Kappler. Ancora dal testo di Droghetti: “Elena conobbe il carcere, Ingiustamente accusata di essere la delatrice che portò all’arresto di Frignani e dei carabinieri suoi collaboratori. Il processo chiarirà la sua estraneità alle accuse e intanto le porte delle Mantellate si aprono per lei e proprio qui conobbe un personaggio controverso: Celeste Di Porto la giovane ebrea di Ghetto accusata dai suoi stessi correligionari di essere stata una collaboratrice dei fascisti, di aver fatto arrestare nel 1944 diversi ebrei romani e per questo ribattezzata Pantera Nera“. Ecco, le due donne diventano amiche e confidenti, una conosce la storia dell’altra e viceversa, sanno benissimo che rischiano il plotone di esecuzione. Certo, non c‘è stata una Norimberga italiana; Pietro Caruso questore di Roma è stato l’unico personaggio fucilato per la strage delle Ardeatine.
Dunque, dubbi pur nel rispetto della carità cristiana, del perdono ma anche soprattutto della necessità di non dimenticare delle Ardeatine. Di certo c’è che con l’entrata in Roma degli alleati i carabinieri compiono un’indagine sulla Hoehn. Presentano alla magistratura un rapporto di mille pagine, davvero una enormità per quell’epoca che, par di capire, non ebbe seguito. Le due donne vennero scarcerate per l’amnistia firmata dal Ministro di grazia e giustizia Palmiro Togliatti, un provvedimento (decreto presidenziale 22 giugno 1946) di estinzione delle pene proposto alla fine della guerra nella nascente Repubblica Italiana e approvato dal primo governo De Gasperi per pacificare un paese dilaniato dal conflitto e dalla guerra civile. Da ricordare che il vescovo Nicolini suggerì di affidare Celeste Di Porto al “fogolar” della Lubich. Celeste visse alcuni giorni, forse un paio di settimane, in una casa abitata dalle focolarine di Trento. Ma non era una donna facile da gestire. Fu Gino Lubich, fratello di Chiara Lubich e partigiano di rilievo nella città, a raccomandare molta prudenza alla sorella perché Celeste, che si sapeva accusata di gravissimi reati pubblicati sui giornali dell’epoca, non conduceva di certo una vita monacale e, riconosciuta, era stata minacciata. Sparì dalla città. Di lei non si seppe più nulla.
(20, continua)