Sloi, i veleni e le denunce fin dagli anni Sessanta
E’ il 19 gennaio del 1968 quando il giornale “Alto Adige” intitola “Sloi ufficialmente insalubre” perché “quale produttrice di piombo tetraetile è stata iscritta nello speciale elenco delle industrie insalubri di prima classe”.
A Roma, il decreto era stato firmato il 3 novembre del 1967 dal Ministro della Sanità Luigi Mariotti e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13 dicembre dello stesso anno, ma a Trento lo aveva letto, per caso, il libraio Ulisse Marzatico e, subito, lo aveva comunicato al giornale.
Socialista riformista, Mariotti era stato il precursore del Servizio Sanitario Nazionale e la sua firma è in calce al decreto che recita testualmente: “Il Ministro della Sanità, visto il decreto ministeriale del 12 luglio 1912 e successive integrazioni, relativo all’approvazione dell’elenco delle industrie insalubri, visto l’articolo 216 del testo unico delle leggi sanitarie approvato con Regio Decreto del 27 luglio 1943 numero 1265” – per inciso, fascismo era caduto due giorni prima – “e visto le altre disposizioni di legge e sentito il Ministro dell’Industria e Commercio decreta: nell’elenco delle industrie insalubri di prima classe approvato con il suddetto decreto ministeriale, è aggiunta alla lettera P la seguente voce «piombo tetraetile».
In base a questa nuova disposizione la Sloi viene ad essere classificata fra quelle manifatture o fabbriche che producono vapori o, gas o altre esalazioni che possono riuscire pericolose per la salute degli abitanti. Queste industrie sono state suddivise, in ragione della loro pericolosità, in due classi nella prima delle quali c’è la Sloi…. che è fra quelle che devono essere isolate nella campagna e tenute lontano dalle abitazioni, a meno che l’industriale [ titolare dell’impresa ] provi che per l’introduzione di nuovi metodi o di speciali cautele, il suo esercizio non reca nocimento alla salute di chi abita vicino a quelle industrie”.
Quella decisione non era cosa da poco; il citato “nocimento” causato dalla Sloi era, da tempo, ampiamente acclarato. Evidentemente la Gazzetta Ufficiale non era stata letta oppure era passata inosservata. Il dettato di Mariotti si riferiva ai veleni scaricati nell’atmosfera perché in quegli anni ogni pattumiera veniva vuotata nel terreno o nel corso d’acqua più vicino.
Ricordo che il Lario, in quella zona a ridosso di Como racchiuso fra la meraviglia di Villa Olmo e il lungo lago davvero bello, si tingeva ora di rosso, oppure di giallo o di verde a seconda degli scarichi delle tintorie che lavoravano la seta. Anche i corsi d’acqua che scorrevano vicino agli opifici si tingevano del colore impigato in quel giorno nel setificio.
Per restare vicino a Trento, si scaricavano tranquillamente liquami, compreso quello fognario che proveniva da Pergine trasportato dal rio Merdar – nome che non abbisogna di commenti – nelle acque del lago di Caldonazzo assieme ai residui della pulitura di cisterne piccole o grandi usati per i prodotti antiparassitari. Con vistose morie di pesci, con divieti di balneazione in vero poco rispettati. Era presidente Giorgio Grigolli quando, era la metà degli anni Settanta, si decise di salvare il lago introducendo i Limno, quelle campane ancorate sul fondale destinate a riossigenare le acque, problema al fine risolto con la famosa fognatura che, raccolta ogni schifezza liquida, la convogliava al depuratore collocato sulle rive del fiume Brenta. Ma quella era l’epoca nella quale si era abituati a sotterrare ogni sporcizia e si racconta – ma non è stata trovata prova alcuna – che taluni residui venivano periodicamente caricati sul cassone di un motocarro che, guidato da Lino Floria, venivano portati in qualche zona piuttosto a nord di via Maccani.
Molto cambiò con il pretore Corrado Pascucci che, fra mille ostacoli compreso quelli creati a Palazzo di Giustizia, cominciò a rincorrere i più smaccati inquinamenti che minavano il territorio.
Ma ecco un altro capitolo della storia della Sloi. Era il pomeriggio dell’ 11 novembre del 1970 quando il sindacalista Giuseppe Marchesoni convocava i cronisti dei quotidiani trentini nella sede dalla Cisl per consegnare la fotocopia di una lettera firmata dal medico di fabbrica dr. Giuseppe De Venuto: è la lettera di dimissioni recapitata poche ore prima alla direzione dello stabilimento. “Purtroppo devo rammentare a codesta direzione, che gli operai intossicati sono numerosi, che essi possono non di rado diventare degli invalidi tarati nel sistema nervoso e nella psiche e possono anche morire in maniera tragica come è già avvenuto”.
Il medico era alla Sloi da nove mesi. Nel dimettersi denunciava “divergenze inaccettabili circa i compiti del servizio sanitario di fabbrica e i doveri da parte della direzione nella tutela della salute degli operai” e aggiungeva: “E’ inaccettabile che il problema della salute passi in secondo ordine rispetto a quello della produzione e che determinati provvedimenti a carattere preventivo richiesti da chiare esigenze igienico - ambientali vengano elusi o rinviati nel tempo”.
L’ accusa è durissima e sta a significare che non si è fatto quasi niente per migliorare le condizioni di salute dei lavoratori, e di riflesso, delle loro famiglie e che l’impegno con il quale “l’affare Sloi” era stato affrontato dalla politica si era sfarinato nel tempo mentre nell’arco di pochissimi mesi tre medici avevano abbandonato il loro delicato e difficile incarico nel perimetro dello stabilimento.
Proprio all’inizio di quell’ anno – era il 3 gennaio – aveva suscitato un grosso scalpore la decisione del medico Aldo Danieli. Aveva annunciato le dimissione con un brevissimo scritto contenuta nel voluminoso carteggio riguardante la Sloi custodito negli archivi del Municipio di Trento: “Spettabile direzione, comunico che pongo fine con decorrenza immediata, alla mia collaborazione come medico di fabbrica alla Sloi”. Lettera lapidaria seguita da una missiva inviata dalla Sloi all’assessore regionale alla sanità Fronza e all’assessore comunale all’igiene Gino Manunta dove si legge: “Purtroppo, anche a causa della psicosi creata dalla stampa nei confronti della Sloi ( e quella fu una delle rare lettere nelle quali si citano i quotidiani ) l’assunzione di dieci semplici manovali è diventata un problema arduo. Inoltre è subentrata la psicosi creata fra i dipendenti dal medico di fabbrica, per cui parte di essi hanno dato le dimissioni per andare alla Ignis, peggiorando in tal modo la situazione e allontanando la data che sembrava ormai prossima di inizio dei turni a sei ore al reparto pt”.
Dunque l’idea dei quattro turni nell’arco delle 24 ore tornava nel cassetto dei “faremo” più volte annunciati mai concretizzati. Certo, la Ignis accolse un numero notevole di operai della Sloi: le paghe erano un po’ più basse, non c’era l’incentivo degli straordinari né c’era un padron Randaccio pronto a premiare chi aveva lavorato meglio. Però le condizioni generali erano davvero migliori.
C’ è un altro capitolo conseguente alle dimissioni del dr. De Venuto. Il giornale “Alto Adige” pubblica il 14 novembre che il procuratore della Repubblica Mario Agostini ha convocato i carabinieri ordinando l’inchiesta giudiziaria – la prima – sul complesso industriale.
ecco le prime righe dell’articolo citato: “Il terremoto politico e sindacale scatenato dalla clamorose dimissioni del medico di fabbrica si è concretizzato nell’apertura di una inchiesta giudiziaria e nella presentazione di due interrogazioni firmate dal consiglieri regionali Nereo Manica, Giuseppe Avancini e Attilio Tanas. A queste interrogazioni si aggiunge un documento firmato dal sindacato Cgil-Scuola” mentre in Regione si riuniva una nuova commissione conoscitiva. All’epoca non era ancora entrata in uso la terminologia di “tavoli”. Che negli anni successi ne furono proposti molti, alcuni riccamente imbanditi. Anche perché erano pagati dai cittadini.
Sulle dimissioni di De Venuto intervennero in molti e il dr. Arturo Marzatico scrisse che ci si trovava di fronte ad “un atto naturale di un sanitario cosciente che non voglia divenire corresponsabile nel pregiudicare la salute e la vita dei lavoratori a lui affidati per garantirne l’incolumità”. Un cenno alla Ignis poi Iret quindi Whirpool. La storia di quello stabilimento definito da Flaminio Piccoli nel giorno dell’inaugurazione “la cattedrale del lavoro”, è stata magistralmente ricostruita dal giornalista Mauro Lando nel “Dizionario trentino”.
La Ignis è un esempio del miracolo economico degli anni Sessanta che consegnò agli italiani un elettrodomestico sospirato: il frigorifero che sostituì la ghiacciaia, quel mobiletto pittato di bianco, di legno e lamierino nel quale veniva ficcato il ghiaccio prodotto nelle fabbriche del ghiaccio presenti in tutte le città, per conservare la carne, il burro, il latte. Il frigorifero della Ignis che si poteva comperare a rate e con le cambiali, ebbe un successo travolgente e mutò al pari della Vespa e poi della Seicento e del televisore, il modo di vivere degli italiani.
Per Trento il nome Ignis è legato al 30 luglio del 1970 che, dopo l’orrore di Piazza Fontana, segnò un’altra tappa di quella che poi, con la nascita delle Brigate Rosse, caratterizzò un’ epoca di insensata quanto turpe violenza. Fu una guerra civile perché se si rilegge il verbale firmato nel carcere di Oristano dal terrorista Cesare Battisti dove è rinchiuso dal giorno dell’estradizione dalla Bolivia c’è quel “chiedo scusa, pur non potendo rinnegare che in quell’epoca per me e per tutti gli altri che aderirono alla lotta armata, si trattava di una guerra giusta”. Oggi quel “guerra” che con tutta la sua orrenda violenza è sulla porta di casa ha fatto lievitare la perplessità nell’ usare il sostantivo “guerra”, visto cosa accade all’ Est. Ma c’ è il rischio che in un futuro non lontano venga chiamata “guerra giusta” quell’ammazzare fra il dopo Piazza Fontana fino all’ultimo atto del buio della ragione che vide l’assassinio di Marco Biagi. Ecco la “guerra giusta” che in quell’epoca di assoluta follia costata 350 morti e più di mille feriti, ancora si tenta di giustificare quella catena di delitti anche come riposta allo sfruttamento nel mondo del lavoro.
Oggi la vecchia Ignis si chiama Whirpool ma mentre nasceva la “cattedrale del lavoro” in via Maccani, oltre le solide mura che ancora cingono quel terreno avvelenato, tornava a diventare vivace un problema fino a quel momento toccato solo raramente. I “fumi” della Sloi potevano essere nocivi agli abitanti di Campo Trentino, al rione di Cristo Re, alla centrale del latte, al macello e ai dipendenti di altre industrie della zona e così da Roma, ma non era stato facile averlo, era arrivato un apparecchio capace di catturare gli effluvi dello stabilimento.
Più esattamente l’apparecchio di captazione era giunto a Trento ed era stato affidato al direttore del laboratorio chimico Bruno Cadrobbi. Compito dell’apparecchio, quello di captare le esalazioni che poi, nel laboratorio di via Piave dovevano venire analizzate e classificate per stabilire se fossero o meno nocive. Però l’apparecchio, per ordine ministeriale, non poteva essere impiegato se non a due metri dal muro di cinta dello stabilimento, pur non essendoci una regola che imponesse, o consigliasse, a quale distanza lo strumento si poteva usare. Quella “stazione spia” – così era stata subito definita dai giornali, si imbatté in un altro intoppo: non fu possibile farla funzionare perché il dottor Cadrobbi non riuscì ad ottenere dalle autorità competenti l’autorizzazione a collegare l’apparecchio alla rete dell’energia elettrica. Visto che l’apparecchio senza elettricità non poteva essere acceso, non entrò in funzione. Di certo nell’ottobre del 1978 non erano stati ancora resi noti i risultati delle captazioni.
Intanto l’ “affare Sloi”, era già accaduto nel passato, ma era stato accantonato perché era impellente tentare di migliorare le condizioni di salute all’interno dello stabilimento, affrontava un nuovo capitolo: dove andavano a finire le scorie liquide e quelle solide?
La prima risposta la diede Enrico Puner il leader del PPTT-Ue. Fotografò due operai della Sloi che con lunghe pertiche rimuovevano il fango del rio degli Armanelli là dove una rudimentale condotta mostrava il liquame ruscellare da un pertugio sommariamente aperto nel muro di cinta. Si intuì che le acque rese torbide, probabilmente molto velenose perché provenienti dalla pulitura delle cisterne dove si formava il piombo tetraetile, da anni stavano inquinando quel rio che poi si gettava nell’Adigetto e che, a sua volta, sfociava nell’Adige.
Ma dove finivano gli altri sedimenti, quelli solidi oppure umidi? Nel terreno. In profondità. Anzi, il più profondo possibile. Ora in quei terreni avvelenati in profondità, si pensa di far passare il progettato tracciato ferroviario dimenticando, per esempio, che uno scavo effettuato all’altezza della prima rotonda stradale appena a sud della Sloi – questo il racconto fatto a suo tempo – venne interrotto dall‘affioramento di un liquido maleodorante che avrebbe causato un accenno di malore al manovratore dell’escavatore.