Piazza Fontana, la strage che ci precipitò negli anni di piombo e nelle ombre della strategia della tensione
Il 12 dicembre 1969, alle 16.37, un ordigno confezionato con sette chili di tritolo esplode nel salone nella Banca dell’Agricoltura. È una strage: 17 morti, decine di feriti
TRENTO. Quel 12 dicembre 1969 segnò uno spartiacque nella vita italiana dai giorni della fine della guerra. Per tanti aspetti, si può parlare di un prima e di un dopo Piazza Fontana perché la strage nella Banca dell’Agricoltura nel centro di Milano, con i suoi 17 morti, i molti feriti, i mutilati, non fu la più atroce tra quelle che insanguinarono l’Italia; ma fu una freccia avvelenata nel corpo del Paese e i miasmi che diffuse nel cuore degli italiani, scatenò il furore del terrorismo, della lotta armata degli “anni di piombo” che solo da pochi decenni ci siamo liberati.
Quel pomeriggio il salone dal tetto a cupola della banca era pieno di clienti venuti soprattutto dalla provincia; l'esplosione avvenne alle 16.37, lo scoppio di un ordigno di sette chili di tritolo massacrò sedici persone - tredici morirono all’istante - e ne ferì ottantasette; la diciassettesima vittima cessò di vivere un anno dopo per problemi di salute legati all'attentato.
Una seconda bomba fu rinvenuta inesplosa nella sede della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala. Fu recuperata, ma l'ordigno, che poteva fornire preziosi elementi per l'indagine, soprattutto per risalire a chi l’aveva costruito, fu fatto brillare dagli artificieri la sera stessa cancellando una prova fondamentale per le indagini. Soprattutto perché gli artificieri “clandestini” capaci di assemblare ordigni sofisticati, erano davvero pochi e nel meccanismo ad orologeria, si poteva trovare una traccia di chi l’aveva assemblato.
Ricorda Giorgio Postal, eminente uomo politico e all’epoca della strage di Milano segretario provinciale della Democrazia cristiana trentina: “In quel tardo autunno il clima politico era per un verso, euforico. Solo tre settimane prima, il congresso della Südtiroler Volkspartei aveva approvato il “Pacchetto”. Stessa cosa avevamo fatto noi della Dc con una grande assemblea provinciale, una responsabilità che mi collocava in una sorta di prima linea politica. Il 3 dicembre il Presidente del Consiglio Mariano Rumor, lo aveva presento alla Camera e lo aveva fatto approvare. Il 6 dicembre anche il Parlamento austriaco aveva dato il suo assenso. Si profilava la definitiva conclusione della controversia altoatesina e si andava chiudendo un decennio difficile nei rapporti con la Svp e tragico per gli effetti del terrorismo altoatesino” che adesso per molti fu una lotta patriotica; un’epoca nella quale Postal era stato un protagonista della politica regionale assieme a Silvius Magnago e Aldo Moro.
Ancora dalla testimonianza dell’ex senatore: “Quel venerdì c’era già in giro un aria di festa natalizia e le prime notizie sulla bomba di Milano arrivarono poco dopo le 5. Ricordo di avere chiamato Flaminio Piccoli, che da poco aveva lasciato la segreteria nazionale della Dc ma che, comunque, poteva avere informazioni di prima mano. Anche lui in quel momento, non aveva ulteriori particolari, salvo il fatto che c’erano parecchi morti e feriti”. Poi arrivano altre notizie.
Una terza bomba era esplosa a Roma alle 16.55 nel passaggio sotterraneo che collegava l'entrata di Via Veneto della Banca Nazionale del Lavoro con quella di via di San Basilio; altre due erano esplose tra le 17.20 e le 17.30, una davanti all' Altare della Patria e l’altra all'ingresso del Museo del Risorgimento in Piazza Venezia”.
I feriti a Roma furono in tutto 16. Lo Stato era stato attaccato nella capitale ufficiale designata come capitale morale e nella capitale economica e produttiva. E il rombo dell’esplosivo era stato udito in ogni luogo dell’Italia creando sgomento, paura, rabbia, voglia di vendetta. Ma anche, come scrisse Postal: “Non credo di esagerare se affermo che in talune città - Milano in particolare - si respirava un clima davvero preinsurrezionale. Del resto basta rileggere i giornali o rivedersi i servizi televisivi di quei tempi [per vedere] le piazze dominate da gruppi extraparlamentari, i cortei erano quasi quotidiani” e spesso molto violenti “e grande impressione aveva fatto, nel mezzo di quell’autunno caldo, la morte di un giovanissimo poliziotto Antonio Annarumma ucciso nel corso di una sommossa” non si è mai capito se colpito alla testa da una sprangata o se l’autocarro che guidava era finito contro una struttura di tubi Dalmine. E’ certa però una cosa. Quando il grido “hanno ucciso Annarumma” deflagrò all’interno della caserma dove era accantonato il reparto della Celere, molti militari balzarono in piedi e scendendo di corsa il largo scalone, estrassero le rivoltelle dalle fondine. Si sentì il clak-clak delle armi che impugnate, venivano armate da quel gruppo di giovani in divisa decisi a lasciare la caserma per vendicare, nelle strade in subbuglio, il commilitone ucciso. Il portone d’accesso era socchiuso e nell’apertura si materializzò davanti a quel gruppo di armati che diventava sempre più fitto un ufficiale, certamente apprezzato dai suoi uomini. Che si fermarono, le braccia con l’arma impugnata, tese verso l’alto che sembravano tremare. Le Beretta tornarono nelle fondine, gli agenti le disarmarono nell’apposita sala. In quei momenti si evitò una strage che avrebbe potuto avere effetti terribili.
“A tutto questo”, continua il discorso di Postal, “devo aggiungere il timore - e anche il sospetto fondato - che il Partito comunista (il Pci dell’epoca, ndr) riuscisse a strumentalizzare e orientare la protesta ai propri fini. Un Partito comunista, è bene ricordarlo, guidato ancora dal vecchio Luigi Longo, l’ultimo esponente della classi dirigente stalinista”. E quella era anche l’epoca nella quali si diceva che la guerra partigiana l’avevano vinta i comunisti ma l’avevano persa nelle urne di quel 25 aprile del 1948.
Oggi possiamo dire che la strage della Banca dell'Agricoltura non fu la più atroce tra quelle che hanno insanguinato l'Italia, ma quel tritolo diede via al periodo passato sanguinosamente alla storia, come “strategia delle tensione”, padrina di altri attentati, come la strage di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio del 1974 con 8 morti, quella del treno Italicus del 14 agosto sempre del 1974 con 12 morti e la più sanguinosa, alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 con 85 morti.
Sono passati 54 anni, i meno giovani ricordano la voragine nel pavimento del salone della banca milanese, la folla attorno alle 16 bare che sfilano verso sera dirette al Duomo, il giornalista Indro Montanelli a scrivere: “Diede l’avvio a gesti di cieca ferocia anche perché le indagini ebbero un andamento zigzagante e grossolanamente contradditorio”.
Nelle scuole di Polizia si citava l’attentato, sempre a Milano, del 23 marzo del 1921 al cinema-teatro Diana con 21 morti e 80 feriti. Si accertò che gli anarcoindividualisti avevano deciso di colpire il teatro frequentato dalla borghesia milanese. Nel corso dei processi non verrà mai chiarita la reale motivazione della scelta del Diana, sebbene s'ipotizzasse che l'obbiettivo fosse il questore Giovanni Gasti che si riteneva risiedesse in un appartamento posto sopra il teatro.
La sera del 23 marzo furono posizionati 160 candelotti di gelatina esplosiva in una cesta, ricoperti da paglia e bottiglie vuote, poi collocata nei pressi dell'ingresso riservato agli artisti che portava dall'albergo alla contigua sala di spettacolo. Gli anarchici, appunto. E le indagini partirono da loro perché i morti di Piazza Fontana furono inizialmente imputarti agli anarchici milanesi. Scrisse Montanelli: “Vi furono errori o leggerezze della polizia, ma vi fu anche una forsennata volontà di strumentalizzazione. Piazza Fontana resta, giudiziariamente, un enigma e gli anni passati non sono bastati ad arrivare in fondo a quel pozzo tenebroso: ed è inutile sperare di arrivarci in un futuro”. (1. continua)