Da Hanoi a Saigon: cinque amici in bici / 4
Cronache di un viaggio che è anche tributo: da nord a sud del XVII parallelo, segnato ancora dagli echi della storia
LA GALLERY/1 I colori di Hanoi
LA GALLERY/2 Bici, fiumi e...
LA GALLERY/3 Un Paese in festa
LA GALLERY/4 Grandi contrasti
Come è noto, viaggiando si imparano un sacco di cose… il Vietnam si è rivelato un Paese di notevoli contrasti. Di seguito esemplifichiamo alcune singolari abitudini locali. Contro ogni stereotipo, sono quasi sconosciute le biciclette. I vietnamiti preferiscono gli scooter giapponesi. Nei rarissimi negozi si vendono bici specializzate per bambini; nelle zone rurali anche i più piccoli gironzolano in coppia su minuscoli ciclomotori elettrici senza targa.
Le corriere del servizio pubblico si prendono al volo; abbiamo visto un bimbo, poco più che lattante, “lanciato” praticamente nelle braccia di qualcuno a bordo, mentre il genitore si precipitava a bordo in corsa. Lungo le direttrici e nei centri urbani, segnalatori acustici di camion, pullman e pullmini superano la soglia del dolore, al punto da rendere necessari i tappi per le orecchie. Funziona, ed è molto utilizzato, il servizio di taxi in scooter; ma è anche molto diffuso il motocarro, in particolare un tipo dalle bellissime graziose proporzioni che ricorda il nostro vecchio “Guzzi Ercolino” della fine degli anni ‘50. I pedoni preferiscono camminare sul ciglio delle strade e lasciare i marciapiedi a parcheggio scooter; le scarpe, anche nelle città, sono poco utilizzate e quei pochi che le portano, se piove, calzano ciabatte.
Destinazione Saigon in bici/4
I caschi utilizzati dalle ragazze hanno un foro sulla parte posteriore dal quale fuoriesce la coda di cavallo... Le sedie e i tavolini nei ristoranti popolari, ma in generale ovunque, sono veramente “ini”, con una seduta media di 35 cm circa. La gente trova rilassante sedersi per terra e anche lavorarci. In molte officine il tavolo di lavoro è il pavimento. Frequente, nei ristoranti popolari, che con le bevande ti venga portato un secchio (tipo moplen) pieno di cubetti di ghiaccio, grandi come un mezzo sampietrino. Specie nelle campagne, la gente canta con il Karaoke (anche in assoluta solitudine) utilizzando enormi amplificatori, accesi in casa con effetto “Disco”.
I cani vietnamiti si assomigliano tutti: meticci, in carne, di piccola taglia, color cammello un tantino tigrato, liberi e senza collare, stazionano davanti alle abitazioni dei loro padroni; sempre incolumi nel traffico, sanno fare slalom tra gli scooter in corsa, senza rimetterci il pelo, a volte si stendono sulla carreggiata e si muovono solo se sentono un clacson o il campanello delle (nostre) bici, fissandoti con sufficienza. Anche loro sembrano piuttosto felici. Il 2 febbraio 2025, in tre riprendiamo a pedalare verso sud da Hoi An, con la temperatura che sale man mano che si scende ed è prossima ai 30 gradi. Si pedala lungo stradine accattivanti quando, lungo il percorso, ci raggiunge un signore molto distinto a bordo di uno scooter; si ferma e ci saluta alla maniera vietnamita, ci stringe più volte la mano. Poi prende il portafoglio e vuole donarci 20.000 Dong.
Quando gli diciamo, ringraziando, che non possiamo accettare del denaro, lui quasi si commuove, ci abbraccia e ci bacia. Ci saluta di nuovo cordialmente, sale in moto e se ne va. Mancano ancora 1000 km a HCM (Saigon). Raggiungiamo Núi Thành dopo quasi 100 km. Entriamo in un bar dopo aver mangiato del Pho. Tutti gli avventori si mettono a ridere copiosamente. Alcuni giovani camerieri sono imbarazzati nell’avvicinarsi a noi. Ci sentiamo un po’ alieni e un po’ benedetti. Alcune mamme ci portano i bambini e dicono loro di salutarci facendo il gesto con la manina. Il 4 febbraio piove a scrosci. Per evitare l’attrito del fango, si percorrono le principali arterie in un traffico da brivido che ormai ci ha assuefatto. A Phu My, ai bordi di una strada, una vastissima zona monumentale di ettari celebra lo spirito patriottico. È deserta.
Fradici e stanchi affrontiamo continui saliscendi e ci fermiamo nella stazione dei bus per riprenderci. Qui si vedono gli Sleeping bus, tantissimi e quasi tutti rossi, che riempiono le highway e sono molto utilizzati anche dalle famiglie. Dentro la gente scalza, in pigiama o con i calzoncini corti, è adagiata sopra batterie di brande. Alcuni sono super, hanno la scritta Limousine VIP e sono forniti di schermo tv grande per ogni branda e di WI-FI.
5 febbraio. Sole al massimo e crema ad alta protezione. Decidiamo di fare una pausa tecnica e, alla stazione di Diêu Trì, di negoziare con alcuni autisti per un transfer in van fino alla famosa stazione balneare di Nha Trang. La transazione con gli autisti è da film. Alla nostra proposta di caricare bici e masserizie sul monovolume, incredulità e scetticismo. Si raduna un capannello di uomini, donne e bambini che discutono nel merito sulla possibilità di farci stare tutto. Ci offrono due mezzi, ma alla fine li convinciamo che ci può stare tutto, se smontato. Effettuato il carico e chiuso il portellone, dimostrazioni di giubilo collettivo. Saliamo a bordo tra saluti, strette di mano e sorrisi…manca solo l’ovazione.
A Nha Trang si arriva che è notte. L’autista ci ha “consigliato” di iniziare a pedalare già all’inizio della città. Seguiamo il consiglio, poi scopriamo che ci sono 26 km da percorrere di saliscendi abbastanza impegnativi… va bene così. Alla fine ne è valsa la pena perché ci siamo tuffati in una lunga discesa fino all’estremo nord del Golfo, alla periferia della illuminatissima città. Lo Skyline ricorda un po’ Manhattan e, per chi fa il giro della città proveniente dalle campagne e dalle zone più popolari, il contrasto è molto forte. Diciamolo pure: una delusione. È una città che basa la sua economia sul turismo internazionale e non si differenzia, nei suoi intrattenimenti, da qualsiasi altra città turistica del mondo occidentale. Peccato! Troviamo subito un hotel, qui è pieno zeppo, e incontriamo, per la prima volta qui in Vietnam, una nota di diffidenza. Ci chiedono di lasciare i documenti. Stanchi morti non negoziamo, l’importante è arrivare in una camera confortevole, fare una doccia e poi un breve giro di perlustrazione.
Nha Trang sarebbe un posto interessante, se non si fosse tramutata in un parco di divertimento per occidentali. Al largo un arcipelago di isole bellissime con vegetazione tropicale e un’interessante industria di allevamento ittico sparso in tutto il golfo.
Il 6 febbraio decidiamo di effettuare un tour turistico sulle isole e qui, questo non era un atteso imprevisto, ci imbattiamo in un episodio di ambiguità di un operatore che si offre di noleggiarci una barca con pilota per visitare le isole; poi decide lui dove e quando andare. Perlomeno, da buoni italiani, abbiamo contrattato a lungo il prezzo del ristorante e alla fine ci siamo accordati. Una nota di amarezza: le isole sono bellissime, ma il loro fascino è “inquinato” dal turismo di massa e non vale la pena di fermarsi un giorno in più.
Nei giorni successivi c’è solo il piacere della pedalata fino a Phan Thiết, una città piena di vita vietnamita. Decidiamo di passare la notte su uno sleeping bus, ma prima assaporiamo la serata negli ampi giardini pubblici del centro, dove bambini, adolescenti e mamme con bambini in braccio circuitano per centinaia di metri con minuscole automobiline elettriche, letteralmente folgoranti di luce. Probabilmente è una serata particolare perché, per la prima volta in Vietnam, vediamo dei bambini e delle bambine con disabilità in braccio alle loro mamme. Eh sì, ci ha fatto tenerezza, perché in questo paese persone con disabilità in giro per strada non ne abbiamo viste tante.
Alle 23.00, consegnate le bici alla società dei pullman per la spedizione, saliamo sullo sleeping bus.
I vietnamiti amano questa modalità di trasporto, specialmente la notte. Centinaia di pullman invadono le principali arterie di comunicazione nella direzione dei principali centri urbani. Si sale scalzi e si prende posizione su una cuccetta poco più larga di 40 cm. Meno male che i vietnamiti non hanno generalmente il problema del surplus di stazza! Si sta stretti, ma stiamo bene. Di prima mattina saremo a Saigon. Ci addormentiamo, non prima di osservare il paesaggio circostante: estesi territori coltivati, illuminati a giorno con lampadine bianche e porpora, da non credere. Successivamente abbiamo scoperto trattasi delle coltivazioni di Dragon fruit, ovvero campi di Pitaya, frutto originario dell'America Centrale, dalla boccia rosso porpora con la polpa che può essere sia bianca che rossa, cosparsa di piccoli semi. Viene spesso servito a colazione.
Nella notte arriviamo a Ho Chi Min, Saigon per la memoria storica, dove in hotel ci sta aspettando Sebastiano, un amico di Albiano che da quasi vent’anni vive in Australia e che ha deciso di “far su un salto” per passare qualche giorno insieme a noi. Un’occasione straordinaria di incontro, così lontani da casa.
L’arrivo a Saigon è veramente trafelato. Dallo Sleeping Bus, pieno di studenti universitari che rientrano per il lunedì nella capitale del sud, letteralmente ci scaricano su una sorta di furgone-tradotta che ricorda gli spostamenti sul cassone del camion durante il servizio militare… ma qui è normale. Un errore nella comunicazione, poiché poche persone qui conoscono l’inglese, e Stefano dovrà percorrere la strada in bici fino all’hotel (circa 24 km), in piena notte in una città che è un fermento di attività, tra gente che balla, che dorme sul ciglio delle strade, che lavora, che fa 1000 cose.
Superato anche questo scoglio, ci ritroviamo in hotel nella zona vecchia della città, il distretto 1, dove alle quattro di mattina c’è una vita che pare Barcellona, un po’ più degradata nei suoi caseggiati stile vecchia Francia e dove, ci dicono, è possibile trovare di tutto. Carichi dei nostri bagagli ma compiaciuti di aver raggiunto Saigon, meta principale del nostro intento.
Saigon, o meglio Ho Chi Min, nonostante i suoi grattacieli alti fino a 481 m, resta una città che sa di passato. Sorvolando sul traffico caotico e su molta architettura ex colonia francese, si ha l’impressione di essere in un “altro” Vietnam, rispetto al Nord. Su questa questione ci confrontiamo e non possiamo non notare che il Nord ha un carattere più rigoroso e fiero.
Non ci addentriamo in analisi antropologiche, ma l’esperienza empirica sembra indicare una contaminazione culturale che ha lasciato il segno. Resta sempre nel cuore, per noi, per quelli della nostra generazione, Saigon. Ed è così che decidiamo, il giorno dopo, di andare a visitare il War Remnants Museum di quella che qui ancora chiamano “la guerra americana”.
A parte qualche mezzo aereo da combattimento esposto all’inizio del percorso, quando si entra nelle diverse sale la sensazione è abbastanza deludente. Si ha l’impressione che visitando questo museo alla fine non si impari molto e che ci si vada solo per rendere omaggio a tutte le vittime della guerra. Sono tantissimi i turisti americani.
Non fa piacere vedere le bacheche dove sono mostrate le armi utilizzate durante il conflitto, queste si conoscono già, basta andare in Internet per osservare le stesse cose.
Luogo sicuramente interessante, all’interno della struttura museale, è la sezione che più di altre mostra il disonore di chi ha voluto questa guerra: l'utilizzo dell’Agent Orange, il famigerato defoliante utilizzato dalle truppe statunitensi, specialmente nei pressi del 17º parallelo, per poter intravvedere nella vegetazione le truppe Vietcong e il cui effetto è ancora visibile negli epigoni di quella generazione.
Impossibile non avere un sussulto di fronte a tutti i documenti che mostrano gli effetti terrificanti di quell’agente chimico sui feti e sulle persone. Come hanno potuto? Avevamo saputo, dal nostro amico Mariano Anderle, che ha lavorato per cinque anni presso l’Ambasciata come consulente scientifico, che negli anni dell'amministrazione Obama ci sono state anche una sorta di scuse ufficiali da parte degli Stati Uniti d’America nei confronti del Vietnam, con conseguente erogazione di donazioni e altre manifestazioni di simpatia nei confronti del popolo vietnamita.
Meglio che niente, ma il ricordo non può sparire con un trattamento economico che cancelli la storia. Per questo rendiamo omaggio a tutti coloro che, anche in virtù delle nuove tecnologie, hanno potuto documentare quella carneficina che altrimenti, come tante altre “storie” della storia umana, sarebbe caduta presto nell’oblio, scotomizzata dalla ragione di Stato e la verità negata al popolo, come si fa coi bambini quando si mette loro la mano davanti agli occhi, per non far vedere qualcosa di spaventoso.