Doping, batosta per i body builder In appello inflitte sei condanne
Condannati per doping
Tutti condannati per doping e in tre anche per associazione a delinquere finalizzata alla vendita di sostanze dopanti. È una batosta quella arrivata dopo cinque ore di camera di consiglio per sei atleti di body building, comparsi mercoledì davanti alla Corte d’appello di Trento, dopo che il procuratore capo Giuseppe Amato e il pm Davide Ognibene avevano impugnato la sentenza di primo grado.
Se nel novembre 2012, infatti, le accuse si erano «sgonfiate» e i sei se l’erano cavata con una condanna a due mesi per il solo reato di somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute, i giudici di secondo grado - presidente Daniela Genalizzi con Anna Maria Creazzo e Patrizia Collino - hanno invece accolto la tesi dell’accusa, sostenuta in aula dal sostituto procuratore generale, Giuseppe De Benedetto. Sono stati condannati per associazione a delinquere finalizzata al doping il noto personal trainer Piero Forti, 62 anni, di Trento (un anno e otto mesi di reclusione e 8000 euro di multa) e i body builder Roberto Chistè, detto «Finanza», 44 anni, di Trento e Giuseppe Corbo, detto Pino, 40 anni, di Mattarello, per il quale è stato escluso il ruolo di promotore (per entrambi un anno e 5000 euro di multa).
I giudici hanno ritenuto che il reato assorbisse anche le altre due contestazioni, ovvero esercizio abusivo della professione e somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute. Condanna per doping (con gli altri due reati assorbiti, ma senza l’associazione a delinquere) anche per Marcello Tommasi, 34 anni, di Levico; Tommaso Scarpelli, detto Tommy, 29 anni, di Calceranica e Gaetano Coletta, 36 anni, di Taranto: per loro dieci mesi e venti giorni e 4000 euro di multa. Ma le difese - con gli avvocati Giampiero Mattei, Luca e Chiara Pontalti, Paolo Mazzoni, Fabio Valcanover e Francesco Moser - sono decise a dare battaglia: scontato il ricorso in Cassazione.
Il processo prende le mosse dall’inchiesta «Minotauro», che nel maggio del 2012 aveva portato all’arresto di 14 persone dopo che i carabinieri del Nas avevano smantellato un traffico illecito di anabolizzanti. Sostanze usate per «pompare» i muscoli e ottenere gli addominali a tartaruga, ma con pesanti effetti collaterali per la salute. Il giudice Carlo Ancona, in primo grado, accogliendo la tesi della difesa, aveva ritenuto che il reato di doping non potesse configurarsi, dal momento che culturisti e palestrati non somministravano i prodotti per alterare le prestazioni agonistiche. Proprio la mera finalità «estetica» dell’impiego degli anabolizzanti o comunque l’uso per scopi non agonistici, aveva portato all’assoluzione (altri cinque avevano invece patteggiato e due sono stati assolti).
Una tesi contestata dalla procura, che nell’appello, citando anche pronunciamenti della Cassazione, ha invece ricordato come l’articolo 9, comma 7, della legge 376/2000 - contestato ai sei body builder - diversamente dai primi due commi, non prevede un dolo specifico, ovvero la volontà di alterare le prestazioni sportive, affinché si configuri il reato di commercio di sostanze anabolizzanti. «Anche la sola destinazione dei farmaci commercializzati a soddisfare finalità estetiche sarebbe indicativa del dolo generico richiesto per la punibilità della condotta», sottolinea l’accusa, ricordando che il commercio di queste sostanze è vietato al di fuori delle rigorose prescrizioni previste dalla legge per evitare il pericolo che esse possano essere «usate, somministrate e procurate ad altri come farmaci dopanti». In aula lo ha ribadito anche il sostituto procuratore generale De Benedetto, il quale ha ricordato che non è necessario che la sostanza rientri nella tabella delle sostanze allegate alla legge perchè si configuri il reato, ma basta l’effetto «pratico» del farmaco.
E i giudici, per tre atleti, hanno ritenuto sussistente anche l’associazione a delinquere. Accusa respinta dalle difese, che hanno ribadito come gli imputati agissero in modo e con finalità diverse. Ma i giudici hanno accolto la tesi dell’accusa, convinta che l’accordo e i contatti tra i vari soggetti bastassero a integrare il reato.