«Hanno ucciso mia mamma, mio fratello e mia sorella» L'incredibile storia di Moussa, scappato a 14 anni dal Mali
Mentre racconta, mentre parla di morte e di dolore, non abbassa mai lo sguardo. A volte gira gli occhi di lato, ma solo quando non gli viene la parola giusta in italiano. Non tentenna mai: né quando parla della madre uccisa, né quando parla del fratello ucciso, né quando parla della sorella uccisa, né quando parla di un pistola puntata contro di lui, né quando parla del suo barcone affondato. Mai. I suoi occhi da diciottenne hanno visto cose che, se noi le vedessimo in un film, ci turberebbero e magari gireremmo la testa dall’altra parte.
Lui si chiama Moussa. Ha, appunto, diciotto anni e da otto mesi è in Trentino. Ma il suo lungo, non previsto, non preventivabile e non voluto viaggio verso l’Italia è iniziato ben quattro anni fa. Dal Mali è partito quattordicenne: quando, in Italia, un ragazzino di quell’età chiede il suo primo smartphone, chiede il primo permesso per una pizza con i compagni di scuola il sabato sera, cerca di convincere la mamma a restare a dormire da un amico, Moussa lasciava casa sua, anzi scappava senza una meta.
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«Sono andato via da casa mia quattro anni fa. Mia mamma era un soldato, era un Berretto Rosso. Io andavo a scuola, vivevo con lei, con mio papà che lavorava in una fabbrica di vestiti, con mio fratello più grande e con mia sorella minore. Nella primavera del 2012 per tre giorni non è tornata a casa. Poi ci hanno detto che era morta, che era stata uccisa. La mattina dopo, mentre ero in classe, dei soldati sono andati a casa mia e hanno rapito mio fratello. Mio papà era al lavoro, ma è stato avvertito dell’irruzione ed è subito corso nella mia scuola. Mi ha trascinato via di corsa e portato alla stazione. Mi ha dato dei soldi e caricato su un autobus per andare in Burkina Faso. Quella è stata l’ultima volta nella quale ho visto mio padre. Sono scappato e quel giorno è iniziato il mio viaggio».
Moussa prova a spiegarci alcune questioni politiche legate al governo del Mali, ma rinuncia presto, un po’ perché i vocaboli in italiano gli mancano, un po’ perché, da quel momento in poi, la sua storia non riguarderà mai più il Mali.
«Dopo qualche giorno sono riuscito a parlare con mio papà: mi ha detto che anche mio fratello era stato ucciso. Intanto dal Burkina Faso sono andato in Niger. Lì ho incontrato una persona del Mali, che mi ha consigliato di andare in Libia, garantendomi che avrei trovato lavoro. A quel punto è iniziato un altro viaggio: ho pagato circa 250 euro e sono partito di nuovo. Mi hanno fatto salire su una Jeep della Toyota e via. Nella zona della frontiera tra Niger e Libia il “capo” ha detto che avremmo proseguito il viaggio attraverso il deserto del Sahara. Io gli ho detto che non volevo, che era troppo pericoloso e che doveva ridarmi i soldi che avevo pagato, perché rinunciavo al viaggio. Lui mi ha detto “Qui non c’è polizia, ti uccido subito se non sali in macchina”. Mi ha fatto vedere la pistola e ho smesso di protestare. Ha caricato una pentola di gari, che è una simile al cous cous, e due bidoni d’acqua. Abbiamo viaggiato per ventiquattro ore senza mangiare e bere. Poi abbiamo fatto una sosta e finalmente ci ha dato un po’ di gari e acqua. Siamo ripartiti attraverso il Sahara per altri due giorni di viaggio. Si è anche rotta la jeep e quel giorno ho imparato che nel deserto, di notte, fa veramente molto freddo».
Lo abbiamo detto prima: Moussa non tentenna mai. Noi ci appuntiamo le tappe del suo racconto incredibile e con la scusa di scrivere abbassiamo lo sguardo, soprattutto quando racconta i momenti più drammatici. «Quando la macchina è ripartita abbiamo incontrato un posto di blocco della polizia. Ci hanno chiesto i documenti ma io non li avevo. Perché? Non ti ricordi? Ti ho detto che sono scappato direttamente da scuola, non ero passato a casa a prendere i documenti. Allora ci hanno picchiati con dei bastoni, ma poi ci hanno lasciati andare. Una persona del nostro gruppo, però, era ferita».
A questo punto si blocca un attimo, ripete una parola in francese, prova a mimare con la mani, facendo finta di scavare. Proviamo a capire, diciamo un po’ di vocaboli. Poi ci interrompe nell’elenco. «Sì, sì. Pala, giusto. La pala. Ecco, quella persona ferita è morta e allora con la pala il capo ha scavato una buca nel deserto e l’abbiamo seppellita lì. Poche ore dopo abbiamo visto le luci di un villaggio. Siamo scesi dalla Jeep e ci hanno detto “Ora proseguite a piedi, andate da quella”. Siamo arrivati ma c’era un altro posto di blocco. Ci hanno arrestati tutti. Dopo qualche giorno una persona mi ha fatto uscire, con la promessa che avrei lavorato per lui. L’ho fatto, per tre anni: ero falegname, ma andavo anche nei campi. Non mi ha mai pagato, mai. Un giorno mi ha portato vicino alla capitale, vicino al mare. Mi ha detto “Adesso vai in Italia”. Gli ho detto di no, che volevo solo i soldi per il mio lavoro, che me li aveva promessi. Mi ha detto di salire in barca, altrimenti mi avrebbe ucciso».
Per la seconda volta Moussa viene minacciato di morte. In entrambi i casi si piega al volere di persone che non sapremmo come definire. Tra morire di sicuro sulla spiaggia e rischiare di morire salendo su quella barca, Moussa sceglie la seconda. «Alla fine sono salito su quella barca. Eravamo tantissimi, non saprei dire quanti. Siamo partiti, ma dopo qualche ora la barca si è rotta, siamo rimasti per molto tempo, di notte, in acqua. Per fortuna è arrivata una barca vera, grande. Era la Croce Rossa. Mi hanno raccolto e portato in Italia. Mi hanno detto che era la Calabria. Dove? Non lo so proprio. Due ore dopo lo sbarco, senza una doccia, sono salito su un autobus e arrivato a Marco di Rovereto». Pensiamo, anzi speriamo, che il drammatico racconto di questo ragazzo finisca qui e che inizi a dirci di sogni e speranze. Ma non è così.
«Qualche mese fa sono entrato in contatto grazie a Facebook con un mio amico, che era a scuola con me nel Mali. I suoi genitori non erano soldati, quindi lui vive ancora lì, abbastanza tranquillo. Mi ha detto che mia sorella era viva e stava da uno zio. Di mio papà, invece, non sapeva niente. Forse è scappato anche lui, forse è morto, l’unica cosa certa è che non vive nella mia casa. A metà dicembre, però, questo amico mi ha ricontattato, per dirmi che mia sorella era morta. Mi ha detto che è stata avvelenata, che questo zio ha messo nel veleno nella sua colazione e non l’ha voluta portare in ospedale se non quando era già morta. Però il medico ha scoperto le cause della morte e così lo zio è stato arrestato».
Il suo racconto è finito. Ci guarda. Le domande che ci eravamo preparati, alla luce del racconto, ci sembrano talmente stupide che non le facciamo. A toglierci dall’imbarazzo è una delle operatrici che lavorano alla Residenza Brennero. «Dai Moussa, raccontagli dei tuoi amici qui a Trento». Così scopriamo che qualcuno che vuole bene a questo ragazzo c’è: è una famiglia di Villazzano, che lo ha conosciuto durante un evento di incontro tra cittadini e profughi organizzato a Marco. Si sono affezionati e ora, una volta alla settimana, vanno a prenderlo e lo portano a pranzo con loro, ma anche a fare una passeggiata con le ciaspole o semplicemente a trascorre del tempo insieme. «Sono belle persone, gentili. Gli voglio bene, devo proprio ringraziarli». E il grazie è anche da parte nostra, per saper portare un po’ di amore, un po’ di normalità, un po’ di vita nella storia di un ragazzo di diciotto anni che, negli ultimi quattro, ha vissuto solo morte e dolore.