Morte di Cucchi, la Cassazione «Responsabili anche i medici»
I medici del policlinico romano Sandro Pertini di Roma avevano una «posizione di garanzia» a tutela della salute di Stefano Cucchi e il loro primo dovere era diagnosticare «con precisione» la sua patologia anche in presenza di una «situazione complessa che non può giustificare l’inerzia del sanitario o il suo errore diagnostico».
È fondamentalmente per questa ragione che la Cassazione - come gli stessi supremi giudici scrivono nelle motivazioni del verdetto 9831 depositato dalla Quinta sezione penale - ha annullato le assoluzioni dei cinque camici bianchi che avrebbero dovuto curare Cucchi, morto nel 2009 dopo una settimana di ricovero durata dal 17 al 22 ottobre di sei anni fa.
Con una sentenza di 57 pagine, gli ermellini hanno accolto solo in parte il ricorso del pm romano Mario Remus contro i proscioglimenti di tutti gli imputati emessi dalla Corte di Assise di Appello il 31 ottobre 2014. Il processo d’appello bis si riaprirà solo per i medici, non per i tre agenti della penitenziaria, nè per i tre infermieri.
Per la Cassazione non è accettabile che i giudici dell’appello abbiano rinunciato a fare chiarezza sulle cause della morte di Cucchi a fronte di una sentenza di primo grado che invece aveva ben motivato sulla morte per mancanza di liquidi e nutrimento, e ci sono testimonianze importanti che indicano nei carabinieri gli autori del pestaggio del giovane geometra romano fermato per droga.
«Siamo molto soddisfatti: la Cassazione ha riconosciuto che i nostri motivi non erano infondati e che è stata onesta la rinuncia al ricorso contro il proscioglimento dei tre agenti della penitenziaria in ragione degli elementi che stavano emergendo dall’indagine dei pm Pignatone e Musarò» nell’ inchiesta bis sulla morte di Stefano che coinvolge cinque carabinieri, ha detto Ilaria Cucchi, sorella di Stefano.
«I giudici della Cassazione - prosegue Ilaria Cucchi - hanno riconosciuto che nonostante la grande confusione creata dai periti, la giustizia non avrebbe dovuto abdicare rinunciando a nuovi accertamenti ma avrebbe dovuto predisporre una nuova perizia».
È di «manifesta illogicità» - secondo i supremi giudici - la decisione con la quale la Corte di assise di appello, «ha escluso di procedere ad un nuovo accertamento peritale» sostenendo che «non residuano aspetti delle condizioni fisiche di Cucchi che non siano stati già esplorati e valutati dagli esperti nominati». Secondo la Cassazione, un nuovo accertamento «per l’imponente mole del materiale probatorio acquisito agli atti» si sarebbe potuto svolgere sugli atti stessi, «giovandosi anche dei contributi forniti dai diversi esperti» e non può essere impedito dalla solo presunta - dai giudici dell’ appello - «impossibilità di effettuare riscontri sulla salma di Cucchi».
Su questa morte, scrive il verdetto condividendo le parole usate nella sua requisitoria dal Pg Nello Rossi, non può esserci «una sorta di resa cognitiva».
È da escludere, inoltre - ed è questo un altro punto centrale della sentenza - che Stefano sia stato picchiato dagli agenti della penitenziaria dal momento che ci sono «plurime deposizioni di fondamentale importanza» secondo le quali «sarebbe stato aggredito da appartenenti all’arma dei carabinieri, quindi prima di essere preso in carico dagli agenti di polizia penitenziaria tratti a giudizio».
Tra le testimonianze sottovalutate, si ricorda la «disarmante sicurezza e semplicità del teste Schirone, uno dei carabinieri della stazione Casilina, che tradussero il Cucchi dalla stazione di Tor Sapienza in tribunale e che disse "era chiaro che era stato menato"».
Ilaria Cucchi commenta ancora: «Non ci si doveva arrendere senza una causa di morte certa. La Corte parla di resa cognitiva dei giudici d’appello. Questa resa cognitiva la dobbiamo ai periti. Ma non ci deve fermare, cosi come non si deve fermare il corso della giustizia verso la verità».
Per la sorella di Stefano, la motivazione della sentenza di oggi «riconosce che i motivi di ricorso erano fondati. Il nostro ricorso era fondato quasi esclusivamente sul fatto che si sarebbe dovuto parlare di omicidio preterintenzionale e non di lesioni. La corte ci ha riconosciuto il fatto che i nostri motivi non erano infondati, e l’onestà di una rinuncia al ricorso per gli elementi che stavano emergendo dall’indagine Pignatone /Musarò».