Agente «censurato» per 2 fotocopie fa causa al ministero: vince ma paga
In causa per anni contro il ministero della Giustizia per due fotocopie.
Fotocopie, valore pochi centesimi, che - sia per il ricorrente, sia per l'amministrazione - alla fine si sono rivelate carissime a causa delle spese legali sostenute per combattere un contenzioso legale degno di ben altra causa.
La curiosa vicenda emerge da una sentenza del Tar di Trento depositata l'altroieri, ultimo capitolo di un aspro contenzioso amministrativo, ma con risvolti anche sui fronti penale e civile.
All'origine di tutto ciò ci sono due fotocopie che, ormai 6 anni fa, un agente della polizia penitenziaria in servizio presso il carcere di Spini fece in un ufficio del penitenziario senza autorizzazione.
Poca cosa che però innescò un diverbio tra l'agente e il responsabile dell'ufficio. Per quelle due fotocopie «galeotte», relative ad un certificato di malattia, l'agente subì un procedimento disciplinare che si concluse con la sanzione della censura. Sanzione che l'agente impugnò promuovendo un ricorso d'urgenza al Capo dello Stato. Nel dicembre del 2015 il ricorso fu accolto e la censura cancellata.
Caso chiuso? Niente affatto. Da quel contenzioso amministrativo ne è nato un secondo. Questa volta l'agente, a cui non fa difetto l'ostinazione nel perseguire i propri diritti o presunti tali, promosse un nuovo ricorso chiedendo che il Ministero della Giustizia rimborsasse le spese legali sostenute per la questione fotocopie.
«Secondo il ricorrente - si legge sulla sentenza del Tar - il comportamento tenuto (fotocopiatura del certificato medico ed istanza di malattia), censurato dal superiore gerarchico ingiustamente, come accertato con l'accoglimento del ricorso straordinario, non sarebbe inquadrabile, come ha invece ritenuto l'amministrazione, in un'attività volta a perseguire un interesse personale, ma - al contrario - andrebbe pur sempre ricondotto alle finalità dell'ente di appartenenza, di guisa che sussisterebbe una connessione fra gli interessi perseguiti tale da consentire l'applicazione della norma vigente in materia di rimborso delle spese legali, e da ciò conseguirebbe l'illegittimità dell'impugnato provvedimento».
I giudici amministrativi, però, hanno dato una lettura diversa. L'agente, pur avendo avuto ragione in merito alla censura, si deve pagare non solo le proprie spese legali per entrambi i ricorsi, ma dovrà rifondere al Ministero anche 1.000 euro di spese di giudizio per l'ultimo contezioso. È pur vero che per i dipendenti pubblici una norma del 1997 prevede il rimborso delle spese legali in conseguenza a «fatti ed atti connessi all'espletamento del servizio», ma solo qualora ricorra un triplice presupposto: che il giudizio sia stato intrapreso nei confronto (e non dal) dipendente; che riguardi fatti connessi alle funzioni esercitate durante i compiti d'ufficio; che si concluda con l'esclusione della responsabilità. Nel caso in specie, sottolinea il Tar, non sono soddisfatte le prime due condizioni. Il ricorso è stato dunque respinto. All'agente della polizia penitenziaria resta dunque la soddisfazione di aver vinto la battaglia legale contro la censura per quelle due fotocopie "galeotte", ma a caro prezzo. Il costo sostenuto per le spese di giustizia vale infatti diverse macchine fotocopiatrici.