Scrive «I vigili vanno bruciati vivi» su Facebook

Si tratta di libertà di espressione

di Marica Viganò

Scrivere su Facebook che i vigili sono «feccia» e che «vanno bruciati vivi» non è diffamazione, bensì un’ «espressione di pensiero e di libero esercizio di un’attività critica rivolta in maniera generica ad una intera categoria». Il commento sul social, inoltre, è paragonabile ad uno «sfogo da bar», «in una agorà virtuale dalla memoria breve». È quanto sostengono i giudici della Corte d’Appello di Trento, che hanno assolto l’imputato perché il fatto non sussiste. Con buona pace del Comune di Trento che si è costituito parte civile e che, in primo grado, aveva ottenuto un risarcimento di 2.500 euro.

L’imputato è un esempio di «leone da tastiera»: non ci ha pensato due volte a postare un suo commento in merito ad un episodio di presunta eccessiva severità della polizia locale nei confronti di persone che sostavano davanti ad una scuola. «I vigili vanno bruciati vivi con la benzina...feccia» ha scritto l’uomo. Un clic e il suo pensiero è apparso fra i commenti alla notizia delle multe della polizia locale pubblicata sulla pagina Facebook del nostro giornale. Era marzo 2015 e quella frase era apparsa eccessivamente violenta alla polizia locale di Trento. Si era dunque aperto un procedimento penale, con il Comune che si era costituito parte civile e che aveva vinto la prima partita: l’imputato era stato dichiarato colpevole del reato di diffamazione aggravata e condannato a venti giorni di reclusione ed al risarcimento del danno pari a 2.500 euro.

L’avvocato Elena Biaggioni, difensore del «leone da tastiera», ha dunque presentato ricorso in Appello, ottenendo il ribaltamento della sentenza di primo grado. La Corte - presidente Anna Maria Creazzo con Patrizia Collino e Carmelo Sigillo - ha assolto l’imputato accogliendo innanzitutto quanto evidenziato dall’avvocato Biaggioni nel primo punto del ricorso: il commento era stato pubblicato sul social, circostanza che modifica la possibilità di diffusione rispetto ad un blog e che inciderebbe sulla modalità di identificazione dell’autore del commento. Appurato che non erano state avviate indagini da parte della polizia postale, data la difficoltà nella ricerca tramite server straniero, e che il profilo Facebook da cui era partito il commento risultava disattivato, i giudici di secondo grado hanno rilevato innanzitutto che sussistono elementi di «notevole perplessità» riguardo al legame tra il commento e l’imputato. Tuttavia la frase finita sotto accusa «non configura il reato contestato».

«Si tratta infatti di una, per quanto rozza, espressione di pensiero e di libero esercizio di un’attività di critica rivolta in maniera generica ad una intera categoria - si legge nella sentenza - Il commento postato in esame non appare tanto più offensivo, attesa la sua genericità, dell’altrettanto “raffinato” commento “andate a c...re” da parte di altro utente». La Corte rileva che il commento «non si distanzia molto dalle scritte ricorrenti sui muri della città» e fa l’esempio di un’altra scritta offensiva, contro le guardie carcerarie ed i giudici, che «campeggia da anni sui muri del vecchio carcere ed è stata ormai letta da molti più passanti degli utenti trentini che frequentano Facebook». Il commento contro i vigili non va dunque interpretato con intento diffamatorio, ma come «un generico sfogo contro un atteggiamento ritenuto eccessivamente severo», come «auspicio di maggiore tolleranza», seppure espresso «con modalità piuttosto primordiali».

I giudici di secondo grado, infine, evidenziano il contesto in cui è apparsa la frase. Ritengono che i social media «riproducono quelli che una volta erano foghi da bar, amplificandone la portata e, al tempo stesso, “sgonfiandone” la carica offensiva in una agorà virtuale dalla memoria breve».

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