«Io, infermiera, e l'inferno del Coronavirus»
In prima linea, in trincea contro il coronavirus: la testimonianza di Eliana Mattivi, infermiera all’ospedale Santa Chiara di Trento.
«Sono un’infermiera che lavora nel reparto di malattie infettive dell’ospedale S. Chiara di Trento. Ho deciso di portare la mia testimonianza per non dimenticare mai quello che stiamo attraversando in questo difficile periodo. Fino a due mesi fa ero serena a casa con mio marito e la mia bambina, la sveglia suonava presto alla mattina, accompagnavamo nostra figlia al nido e andavamo al lavoro tranquilli. Poi una sera, al telegiornale, hanno iniziato a documentare la situazione di un paese della Cina, Wuhan, nel quale si era insediato un pericoloso virus altamente contagioso, il Coronavirus o COVID-19. Si parlava, oltre che di contagiati, anche di molte vittime.
Mio marito, lavorando io nel settore medico, mi chiedeva spiegazioni, ma nemmeno io sapevo rispondere a tutte quelle domande.
Ogni sera ascoltavamo i notiziari e ci rattristavamo per quella povera gente, ma, come sempre, finché non tocca personalmente a te, spegni la televisione e non ci pensi più.
Una sera però abbiamo capito che non era più la Cina la protagonista di quell’attacco, ma l’Italia. Da quel momento, anche dopo aver spento il televisore, in famiglia si parlava solo di Coronavirus. Mio marito era molto preoccupato, io un po’ meno.
In reparto sono iniziate le prime riunioni e le prime paure. Abbiamo cominciato a stilare delle procedure nel caso in cui il COVID-19 avesse invaso anche il Trentino. Sono arrivati i dispositivi individuali di sicurezza da indossare ed abbiamo così fatto delle prove di vestizione e svestizione.
Inizialmente ero tranquilla, le colleghe più esperte in materia di malattie infettive dicevano:” ma sì, anche al tempo dell’Ebola eravamo in questa situazione, ma alla fine non è arrivato nessun caso”.
Invece ecco che all’inizio di marzo è arrivato il primo ricovero per Coronavirus. Noi, nel nostro piccolo, eravamo pronti, anche se inesperti; nessuno conosce bene questo patogeno che sta invadendo e distruggendo le nostre vite. Da quel momento è stato un susseguirsi di ricoveri per COVID-19, il reparto attualmente si occupa solo di questo.
È difficile lavorare tutto il giorno con una mascherina, ti sembra di soffocare. Alle volte apri la finestra dello stanzino infermieri per illuderti di reperire un po’ più di ossigeno.
Quando entri dai malati ti devi bardare come chi si sta preparando ad una spedizione nello spazio. Si suda perché è tutto fatto di un materiale impermeabile che, assicurano gli esperti, non fa penetrare il virus.
Ecco appunto, gli esperti, ma possiamo veramente chiamarli così visto che questa particella fino a due mesi fa non si sapeva nemmeno esistesse? Comunque noi ci fidiamo, non abbiamo scelta.
I pazienti stanno a letto, sono astenici ed hanno bisogno dell’ossigeno. In tutto questo sono soli, non possono avere accanto a loro un famigliare o un amico che li possa assistere. Muoiono in solitudine perché i loro parenti, nella maggior parte dei casi, sono in quarantena per essere entrati in contatto con loro prima del ricovero.
Fanno molta pena e, dal mio punto di vista, questa è la cosa più difficile da sopportare. Le linee guida ci raccomandano di rimanere nella stanza il meno possibile, il tempo di somministrare la terapia, reperire i parametri vitali ed eseguire i prelievi ematici. Ma come fai? Come fai a non fermarti ad ascoltare e consolare questo malato solo? È impossibile. Sarà che da quando sono diventata mamma sono ancora più sensibile di quanto lo ero prima, ma io non ne sono capace. Io mi fermo, li ascolto e spesso questo funziona meglio di qualsiasi altra terapia, per il paziente, ma anche per me stessa perché mi aiuta a colmare la sensazione di impotenza difronte a questo mostro.
Molte volte questi pazienti sono già fragili, anziani che hanno alle spalle svariati ricoveri, chemioterapie o altri trattamenti che li hanno portati a conoscere l’ospedale meglio di casa loro e ora, come se tutto questo non fosse bastato, ricevono la cosiddetta” ciliegina sulla torta” che potrebbe anticipare ciò che il destino prima o dopo riserva per tutti noi. Non solo, ci sono anche malati giovani che a casa hanno i loro bambini, le loro compagne, magari anche in dolce attesa, e possono sentire i loro affetti solo telefonicamente. Questi, addirittura, al momento della dimissione, scelgono di non tornare subito a casa, ma di proseguire l’isolamento in una struttura dedicata per evitare di contagiare anche le loro famiglie e così facendo aumentano ancora di più il periodo di lontananza.
Ricordo un paziente anziano, un religioso. Era in affanno, portava la mascherina ai più alti livelli di ossigeno, mi ha stretto forte la mano e con quel poco fiato che gli rimaneva mi ha chiesto: “ Come faccio ad arrivare a domani mattina?” Ho preso il rosario che teneva sul comodino, glielo ho messo tra le mani e gli ho detto di pregare tanto, lui mi ha risposto: “grazie, io pregherò per te”. Lui era un malato che probabilmente, se fosse stato intubato, si sarebbe potuto salvare, ma questo, a causa della disumana selezione che i medici sono obbligati a fare, non è stato possibile. Sì, perché, per chi non lo sapesse, vista la ridotta disponibilità di posti letto in terapia intensiva, nei malati di COVID-19, il giovane vince sul vecchio, il sano sul pluripatologico e così via.
Ricordo poi il momento terminale di un paziente. Sono stati avvisati i familiari della situazione e, fortunatamente, la figlia non era in quarantena ed ha potuto salutare il padre. Io la stavo aspettando nella stanza, mentre la mia collega all’esterno la aiutava a bardarsi. La guardavo attraverso il vetro, le tremavano così tanto le mani che non era neanche in grado di posizionarsi la mascherina e gli occhiali protettivi.
La situazione, per chi non la vive quotidianamente, è davvero surreale. Eppure, per noi infermieri ormai è diventata la routine. Arrivi in reparto e ti bardi, entri nella prima stanza, sudi, hai caldo, assisti il malato e poi esci sul balcone per entrare nella stanza successiva. Sì, perché finché non hai finito il tuo giro, non puoi rientrare all’interno del reparto, in quanto potenzialmente infetta e contagiosa. Sul poggiolo fa freddo e allo stesso tempo sudi, alla sera hai per forza di cose mal di gola e raffreddore ed inizi a preoccuparti e a temere di aver contratto il virus.
Gli occhi bruciano sempre perché gli occhiali protettivi vengono disinfettati con il cloro costantemente e, poco o tanto, questo disinfettante ti entra anche negli occhi. Le mani sono tutte arrossate ed irritate perché sfregarle ogni due minuti con dell’alcool non è di sicuro un toccasana per la pelle.
Con i colleghi ti fai coraggio e condividi questa missione, i turni aumentano, ma non ci lamentiamo, siamo in una situazione di emergenza sanitaria.
In tutto questo però, alla sera rientro a casa. Ci sono mia figlia di undici mesi e mio marito che mi aspettano. Salgo le scale e sul pianerottolo mi tolgo le scarpe e mi svesto, lasciando così i vestiti all’esterno dell’appartamento; d’altronde, cosa dovrei fare? La mia bambina vive praticamente sul pavimento. Mi lavo le mani una, due, tre volte poi la prendo in braccio, bacio lei e bacio mio marito. Mi faccio una doccia, perché in fondo un po’ “sporchi” ci si sente.
Ho paura di portare a casa il COVID-19? Sì, tanta, ma probabilmente la stessa che avete voi, perché vi assicuro che io rischio meno nel reparto dove lavoro che non ad andare a fare la spesa al supermercato. Cerco quindi, nel limite del possibile, di fare ciò che facevo prima per non far pesare più del dovuto questa situazione alla mia famiglia.
È difficile farsi carico di tutta questa emotività e non poterla esprimere con le persone a te più care, ma anche questo fa parte del nostro lavoro.
Questa situazione è pesante perché sono tanto stanca, ma è giusto che io trovi comunque la forza di giocare con la mia bambina e di sorridere con lei anche se il momento non è molto favorevole per essere spensierati e gioiosi come si dovrebbe.
Io amo la mia famiglia e amo anche il mio lavoro e sono orgogliosa di ciò che sto facendo e che potrò fare per aiutare molti malati in questo difficile periodo.
Se mi chiedessero che lavoro vorrei fare in questo istante risponderei: «l’infermiera!» perché sì, risceglierei questo mestiere ad occhi chiusi anche in questo vortice che ci ha inglobati e ci sta tirando sempre più verso il fondo. Tuttavia, sono sicura che insieme ce la faremo e ne usciremo più forti di prima.
Aiutateci, state a casa. Grazie».