"Mobbing al Santa Chiara, non solo Sara Pedri": Filippo Degasperi interroga sul caso di un’altra dottoressa
Nel 2020 la sentenza: la professionista fu risarcita e presentò le dimissioni da anestesia e rianimazione. Ma tutti i responsabili, condannati, rimasero al loro posto
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TRENTO. Dopo il caso della dottoressa Sara Pedri scomparsa nel marzo 2021 e il licenziamento del primario Saverio Tateo, emerge un altro grave caso di mobbing all'interno dell'Azienda sanitaria.
Una condanna alla quale è seguito il pagamento di un'ingente somma di denaro, senza però conseguenze per coloro che sono stati accusati di comportamenti lesivi o che non sono intervenuti per mettervi fine.
La questione è stata sollevata in un'interrogazione presentata nelle scorse ore dal consigliere provinciale Filippo Degasperi e riguarda una professionista, una dottoressa anestesista-rianimatore che lavorava presso l'ospedale S. Chiara e che in seguito ai difficili rapporti interni nel 2016 aveva presentato le dimissioni e se ne era andata.
A distanza di quattro anni, dopo una lunga battaglia legale, la corte d'Appello aveva emesso una sentenza con la quale l'Apss era stata condannata per mobbing e costretta a risarcire la dottoressa.
É il marzo 2020, siamo in piena emergenza Covid, l'attenzione è sicuramente tutta puntata sulle strategie per far fronte alla pandemia e della vicenda nessuno viene a sapere nulla anche perché da tempo le delibere dell'Apss che riguardano i procedimenti giudiziari sono volutamente secretate in molte parti.
«Leggendo la sentenza della Corte di Appello di Trento, che è la numero 5/2020, abbiamo scoperto parole durissime volte a censurare le condotte vessatorie, tutte accertate dal Tribunale di Trento e riportate nelle motivazioni per condannare l'operato dell'Apss», si legge nell'interrogazione del consigliere Degasperi.
«Si parla apertamente di "trasferimenti tra reparti senza consenso", di ripercussioni negative in seguito alla richiesta di fruire di congedi parentali con imposizione di rinunce e ritorsioni, discriminazioni relative ai compensi di risultato con valutazioni negative espresse dal Direttore di Unità Operativa a fronte di carichi di lavoro insostenibili e molto altro ancora. Si parla, e si condanna, per mobbing».
Degasperi sottolinea come nella sentenza i fatti da cui poi è scaturita la sentenza di condanna fossero riconducibili al Direttore dell'Unità operativa di Anestesia e Rianimazione del S. Chiara, quale «autore e punto di riferimento per le condotte di cui si discute».
«Sempre la sentenza stabilisce che "l'intensità della condotta era diretta a liberarsi della dottoressa, intesa come problema per la sua situazione familiare, ed aggiunge che è impossibile pensare che la direzione dell'Ospedale S. Chiara, e i vertici dell'Azienda (all'epoca dei fatti si parla dei dottori Bordon e Dario), non fossero a conoscenza della situazione».
Come nel caso Pedri, dunque, per Degasperi anche allora non fu fatto nulla e si preferì pagare e mettere a tacere tutto.
«La Corte di Appello conclude che "l'elemento intenzionale è evidente, trattandosi di condotte tutte volontarie, di cui era palese l'idoneità a creare una situazione di sofferenza psicologica nella dottoressa che le subiva", e che "le condotte del primario sono state poste in essere deliberatamente e nella consapevolezza della loro idoneità lesiva dell'integrità psichica"».
La conseguenza di questo lungo procedimento e di questa sofferente vicenda in seguito alla quale, come detto, la dottoressa si è dimessa, è stata la condanna dell'Apss per mobbing e al risarcimento della parte lesa.
Degasperi chiede quali conseguenza ha avuto questa vicenda sul direttore del reparto, sull'allora direttore generale, sul direttore sanitario, sul direttore del Sop, sul direttore del S. Chiara e sul direttore del personale?
Questo caso evidenzia come, anche se ci sono gli organi preposti all'interno dell'Azienda per denunciare situazioni di disagio e di mobbing, farle emergere e risolverle è tutt'altro che facile. Forse per questo la maggior parte delle persone preferisce lasciare il posto di lavoro, piuttosto che denunciare anche semplicemente ai superiori e sentirsi poi isolato e incompreso.
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