«Cene e contatti altolocati? Io non sono un faccendiere»
L'inchiesta su porfido e infiltrazioni criminali, Giulio Carini, che non è fra gli imputati, ha depositato una memoria per smentire l'ipotesi che lo vedrebbe come tessitore di rapporti con esponenti delle istituzioni: «Mi dichiaro completamente estraneo all'accusa di far parte dell'ndrangheta. Ho la necessità di chiarire la mia estraneità ai fatti»
IL PROCESSO Al via al tribunale di Trento: sono 18 gli imputati
INCHIESTA Da Lona Lases il controllo su attività economiche a vasto raggio
ANALISI Non solo porfido: il sottobosco di società in odore di ‘ndrangheta
TRENTO. «Sono Giulio Carini e mi dichiaro completamente estraneo all'accusa di far parte dell'ndrangheta. Ho la necessità di chiarire la mia estraneità ai fatti».
Sono le prime parole della memoria depositata agli atti dell'inchieta Perfido il 23 ottobre del 2020 dall'imprenditore calabrese, ma trentino d'adozione, Giulio Carini.
Carini non è imputato nel processo che si sta celebrando davanti alla Corte d'assise di Trento dove si giudicano con rito immediato gli imputati finiti in carcere o agli arresti domiciliari. Restano pendenti una quarantina di posizioni "minori", tra cui politici, imprenditori e lo stesso Carini.
Tra gli atti del procedimento c'è però l'appassionata difesa dell'uomo che secondo l'accusa tesseva rapporti con esponenti delle istituzioni.
«Sono letteralmente fuggito dalla Calabria a 22 anni. Per proteggermi. Per consentirmi di costruirmi una vita altrove. Una decisione sofferta. Non condivisa da mio padre.
Ma una decisione che comunque ho preso perché sapevo - come molti altri miei coetanei - esser allora l'unica alternativa possibile per non dover vivere con compromessi per me inaccettabili altrimenti inevitabili se fossi rimasto nella mia terra. Come tutti i calabresi il legame con la terra di Calabria è rimasto in modo profondissimo.
Un rapporto che trascende il mero senso delle proprie origini. Un legame direi viscerale. Che mi ha portato, come dimostrerò, a volermi impegnare per restituire alla mia terra qualcosa di positivo.
Io ho sempre lavorato. Come "un mulo". In modo onesto. Per costruirmi una vita autonoma, libera e riconosciuta. Per la mia famiglia. E di questo ne sono fiero.
Il mio curriculum professionale vi è noto. E anche sul lavoro, come nella vita sono sempre stato, per come ho potuto esserlo, fermo nei miei principi. Diplomazia in cucina.
A partire dal 2000 ho di fatto lasciato l'operatività dell'azienda Carini Edilizia a mio figlio.
Questo mi ha consentito di dedicarmi con sempre più costanza sia alla mia famiglia sia alle mie relazioni amicali e sociali, anche attraverso una delle mie vere passioni, la cucina.
E la gran parte di quel che mi viene contestato, e che respingo con tutte le mie forze, è proprio legato a questa mia passione.
Dal 2000 avendo anche più tempo libero, come ho detto, mi sono dedicato (anche grazie alla passione per la cucina che per un calabrese si coniuga e si declina in modo osmotico nell'autentico significato della parola "Ospitalità") a costruire e consolidare una serie di relazioni che - anche e soprattutto nella "logica umana" della mia persona - altro non erano che un modo per validare e definitivamente sancire la mia capacità di "essermi costruito da solo" una mia identità libera e autonoma.
È vero. Per me è stato motivo di ambizione personale poter frequentare politici locali, magistrati, funzionari di alto livello delle istituzioni e professionisti. Ma in questo non vi è stata solo ambizione personale. È qualcosa di ulteriore e, per certi aspetti diverso. È qualcosa che riguarda i tratti tipici, di radicale evidenza, della cultura calabrese.
È un tratto culturale di cui non mi vergogno.
Ma un tratto culturale che per nulla è sinonimo di illegalità. Fare un favore - che rimane, pur rimane nella sua autenticità, spontaneo - consente legittimamente di aspettarsi che poi, in caso di bisogno, possa esser ricambiato.In questo, si collocano tutti i rapporti sottesi alle intercettazioni.
E respingo il termine offensivo di "faccendiere". Perché non è questo.
È proprio altra cosa che, peraltro, penso possa esser capita a prescindere dal fatto di esser o meno calabresi.
Con un particolare però: per un calabrese questo principio trascende il piano della razionalità e diventa sostanzialmente una fede, un qualcosa in cui si crede in modo radicale.
Ho organizzato cene per ospiti cui cucinavo piatti tipici (la famosa ricorrente capra), ho aiutato persone ad aver contatti con medici che conoscevo quando vi erano problemi di salute, sono stato disponibile (come peraltro fanno molti) a conversare con candidati che in epoca preelettorale si muovono per cercare di raccogliere voti, ho messo in contatto persone per opportunità lavorative o per fare "raccomandazioni".
Ebbene, in tutti questi casi, che poi sarebbero diventati in una lettura distorta accusatoria la prova della mia appartenenza alla 'ndrangheta, di fatto, mai ho avuto un tornaconto concreto.
Le stesse intercettazioni ne danno evidenza.
Chiunque sia nato e vissuto in Calabria sa che la possibilità di relazionarsi a persone legate alla 'ndrangheta è cosa estremamente concreta. E ciò, tanto più, se si hanno numerose relazioni interpersonali correlate al mondo del lavoro.
Quale lavoro sia, non importa. Basta avere avuto "fortuna" professionale nella vita e la probabilità che un calabrese, prima o poi, sia avvicinato da persone poco raccomandabili, aumenta concretamente proprio nel chiedere favori e creare occasioni di contatto».