Divertimento / Musica

Quando il Trentino ballava in discoteca: in provincia tra gli anni settanta e novanta erano 40

Poi molte hanno chiuso, archiviando un’epoca storica. Una volta si andava in compagnia a ballare e le disco erano l’unico dove passare la serata insieme e socializzare. Quel tempo non c’è più ma i vari “Remember” dimostra che erano davvero uno spettacolo

di Nicola Guarnieri

TRENTO. Si è una chiusa un'epoca di ballo, divertimento e socializzazione. In discoteca, per dire, non si va più. Eppure per decenni le sale con le luci stroboscopiche e il ritmo che impazzava sono state davvero un fenomeno di massa. Che si è addormentato per colpa dei costi e dei mutati costumi sociali.

Di quando in quando qualcuno organizza un qualche «Remember» che accoglie migliaia di nostalgici, ex ragazzi ora gente di mezza età e più. Ma quello spazio dove danzare e fare amicizia pare ormai un ricordo. Perché le discoteche, in Italia e soprattutto in Trentino, sono ormai a rischio estinzione. Motivo? «Costi di gestione, assenza d'anima e mutamenti sociali», taglia corto Maurizio Manica, per anni presidente del sindacato nazionale sale da ballo.

Eppure c'è stata un'età in cui questi centri aggregativi con la musica a palla erano presi d'assalto. E in provincia di Trento, per capirci, erano addirittura una quarantina, con ogni valle provvista di un luogo unico per far divertire i giovani. «Sì, erano davvero bei tempi ma le discoteche, allora, avevano un'anima ed erano identificate con il gestore. Sto parlando di imprenditori storici, come Roberto Zini e Italo Marinolli per il Waikiki di Trento, il Paradisi Star di Pergine della famiglia Valentini, il mio Robin Hood a Villa Lagarina, il Tiffany di Franco Chemolli a Riva e ancora la Conca d'Oro di Zini, solo per citarne alcuni. Erano loro che facevano il locale».

Dagli anni Settanta ai Novanta, dunque, i ragazzi affollavano le piste, ballavano, socializzavano. Poi è calato il sipario, un cambiamento epocale che ha archiviato decenni di notti magiche.

«La crisi è iniziata quando si è deciso di non far pagare l'ingresso. Prima il biglietto serviva anche per selezionare la clientela: sapevi chi e quanti erano in sala e che gusti avevano. Poi tutto è diventato libero. Ma il vero problema è che una volta in discoteca ci si andava in compagnia. Non c'erano telefonini e, soprattutto nei paesi, si passava sotto casa a chiamare l'amico: "Ehi, andiamo in disco stasera?"».

Il mondo, però, è cambiato. Ma anche nel profondo Nord italico c'è stato un tempo in cui la sala da ballo era un richiamo. «Altroché! Si andava per stare insieme, per conoscersi. Ora non è più così. E mi fa tenerezza pensare che quando si organizzano i "Remember" arriva gente di 50, 60 o 70 anni e si abbraccia commossa, si ricorda di quando frequentava gli stessi locali e poi si è persa di vista».

Le «disco» chiuse, come detto, non sono una questione solo trentina ma italiana. Quando abbiamo scavalcato il terzo millennio, per capirci, lungo tutto lo Stivale sono sparite circa 20mila discoteche.

«Il tracollo del divertimento notturno ha toccato soglie altissime in questi ultimi anni per un problema semplice: si può ballare ovunque. E infatti quella a cui stiamo assistendo non è la crisi del ballo ma proprio delle discoteche. Non tanto perché siano strutture anacronistiche ma perché fondamentalmente non c'è interesse da parte delle autorità a definire con precisione i ruoli e i luoghi in cui si possa o meno fare intrattenimento. Penso al mare, dove le feste in spiaggia hanno soppiantato quelle nei locali».

E poi le compagnie non ci sono più. «È un altro problema: ora la società è più individuale, non ci si sposta in gruppo, non c'è quella voglia di spassarsela insieme. Segno dei tempi». Riavvolgendo il nastro, i fasti discotecari hanno abbracciato almeno un ventennio.

E anche nel chiuso Trentino i posti dove ballare c'erano. «Altroché! Ogni valle aveva almeno un locale ed era sempre pieno».

A Trento, per dire, togliendo l'Ufo in via Belenzani che ha resistito fino agli anni Settanta, c'era il Waikiki di Gardolo ma pure lo «Studio Uno» di Vaneze, sul Bondone. Piccola, come «disco», ma meta preferita dei rampolli della Trento bene.

E la Rosalpina a Pianizza di Villazzano. A Pergine Valsugana c'era il «Paradisi Star Number 1», gettonatissimo. E avanti, con quelli grandi: il Piki a Cles, lo Shuttle ad Andalo, il Saint Louis a Mezzolombardo, l'Angelo Blu a Ponte Arche, lo Stork a Storo, il Kiwi a Bondone di Storo, il Des Alpes e lo Zangola a Campiglio, il Jolly a Dimaro, il Manarin a Cavalese e poi giù, nel Basso Trentino, dove tra Vallagarina e Busa si spingevano anche gli altoatesini perché qui faceva molto «italian fun».

A Rovereto c'era il Charly che per un po' ha condiviso lo spasso notturno con il Cral, poi costretto a chiudere quando a Villa Lagarina ha aperto i battenti il Robin Hood. Ad Ala c'era «S'Agapo» in pieno centro storico e più giù, a Sdruzzinà, la Campagnola che di fatto era una balera per i tanti amanti del liscio. Non solo: a Brentonico si ballava al Papillon, a Folgaria al John Club (ancora oggi gettonatissimo) e a Costa al Challanger, a Lavarone al Triangolo.

Poi è arrivato il Fanum a Mori che, di fatto, ha calamitato i ballerini del fine settimana. La vera vita da discoteca, però, era nella Busa. Sul lago di Garda hanno tenuto botta a lungo il Tiffany, l'Apres, la Conca d'Oro e, ad Arco lo Spleen che è resistito e dove oggi sono soprattutto gli «Student party» a fare il pieno. Erano i momenti di svago collettivo, lontani dal tubo catodico che, allora, era l'unica concessione vespertina.

Ma non era, come a lungo hanno concionato i sociologi da gettone, lo «sballo del sabato sera». Non era così, era solo la voglia di fare quattro salti in musica in compagnia.

Non come ora che - come si è lamentato pubblicamente Bob Sinclair - la gente va in discoteca per i selfie e non per ballare. Tornando a quei templi del divertimento, Maurizio Manica traccia una serie di linee «nere»: «Il primo spartiacque è stato il passaggio dai gruppi che suonavano dal vivo ai dj, moda importata dall'Inghilterra».

Perché cambiare? «Perché, e questo è un esempio divertente riletto oggi, quando c'erano le targhe alterne si aveva difficoltà a far arrivare nel locale i musicisti e si era costretti a cancellare date. Con il dj, uomo solo, è stato tutto più facile».

L'altro «paletto» è stato «Saturday Night Fever», il John Travolta «sostenuto» dai Bee Gees che ha fatto il botto. «L'ha fatto, certo. È arrivata la musica che ti impediva di stare fermo e dovevi ballare per forza. Grazie a questo, parliamo del 1978, sono poi arrivati i compositori italiani che negli anni Ottana hanno spaccato».

Questa fase senza pensieri è andata avanti fino alla fine degli anni Novanta. E poi? «Poi è cambiato il mondo. Ma, soprattutto, duole ripeterlo, è sparita la voglia di socializzare e fare compagnia, ognuno per conto proprio, anche quando c'è da pagare un bicchiere al bar». Insomma, è stato messo nel cassetto un periodo che, per altro, faceva girare l'economia. Perché il divertimento collettivo produce Pil ma alla fine, come sempre, il mondo evolve e starci dietro è difficile.

«Purtroppo i locali da ballo non sono riusciti a seguire le mode. E sono stati fatti errori. Soprattutto appaltare la gestione di una discoteca che, di fatto, vuol dire togliere il riferimento, l'amico che ti accoglie. È finita davvero un'epoca e questo spiace. - chiosa Manica - Perché nel solo Triveneto, fino alla fine dello scorso secolo, c'erano 900 licenze e tutte facevano incassi. Ma, soprattutto, erano luoghi di ritrovo. Ora si va da soli, ovunque, e ballare non è più una necessità. Anche se i "Remember", che da noi richiamano tremila persone per ricordare i vecchi tempi, ricordano che la voglia di disco è ancora nel cuore. E, nonostante l'età avanzata, ballano ancora».

C'è anche da dire che il Covid ha scagliato la mannaia su quelli che hanno provato a resistere e non si sono più ripresi. La storia, però, insegna che tutto torna.

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