Ai Suoni delle Dolomiti l'eco folk di «Bella Ciao»

di Fabio De Santi

Spoleto, 21 giugno 1964, Festival dei Due Mondi. È questa la data in cui è andato in scena per la prima volta e accompagnato da furiose polemiche, lo spettacolo «Bella Ciao» che ha segnato l’inizio di quello che viene catalogato come folk revival italiano.

A cinquant’anni di distanza «Bella Ciao», spettacolo la cui eco originaria non s’è mai spenta, è rinato in una nuova forma curata da Riccardo Tesi che mantiene inalterate le intenzioni e la scaletta originarie, per aggiornarlo sulla base delle evoluzioni e degli sviluppi che il folk revival ha avuto in questo lungo arco di tempo.

Venerdì prossimo, 28 luglio, alle 13 al Colac Buffaure in Val di Fassa «Bella Ciao» verrà proposto per i Suoni delle Dolomiti da una formazione che accanto a Tesi vede Lucilla Galeazzi, Elena Ledda, Luisa Cottifogli, Alessio Lega, Maurizio Geri e Gigi Biolcati.

Tesi, da dove la scelta di far rivivere Bella Ciao?

Proprio in occasione dei cinquant’anni della prima di «Bella ciao» Franco Fabbri ha avuto l’idea di festeggiare questo anniversario proponendo un nuovo allestimento dello spettacolo, quindi mi ha chiamato chiedendomi di occuparmene. Per me è stato un grandissimo onore. Quando ero piccolo infatti quello di «Bella ciao» era l’unico disco che c’era a casa mia e per molti versi è stato grazie a questo album che sono diventato un musicista.

Un tuffo nel passato anche per lei quindi.

Sì, ho iniziato suonando proprio con Caterina Boero, che ne è stata una delle interpreti principali. Per me essere coinvolto in questo progetto è stato un po’ come ritornare a casa dopo quarant’anni di musica e di esperienze, come chiudere un cerchio. Tornare su «Bella ciao» con un nuovo bagaglio sulla musica popolare è stata una bella scommessa, che, e lo dico senza supponenza, abbiamo vinto. Avevamo allestito inizialmente il nuovo spettacolo per una rappresentazione unica e adesso abbiamo superato quota cinquanta, non solo in Italia ma anche in tutta Europa.

In quale modo si è avvicinato a Bella Ciao?

La prima regola che ci siamo dati è stata quella di proporre solo brani presenti sia nel disco che nelle altre rappresentazioni fatte in quegli anni. In questo è stato prezioso il lavoro di ricerca di Alessio Lega che ha recuperato tutti i vecchi programmi, abbiamo puntato sullo stretto repertorio di «Bella ciao». Per alcune canzoni, infatti, abbiamo a disposizione diverse versioni, perché di un canto, nella musica popolare, esistono molte varianti a seconda del villaggio, del paese, della regione in cui ci si trova.

Le forme sono quelle originali?

Quasi: abbiamo mantenuto l’accento principale sulle voci, quindi si tratta di uno spettacolo molto cantato, arricchito in diversi momenti dall’accompagnamento strumentale, che in origine era rivolto solo alla chitarra mentre adesso ci sono percussioni e organetto. A questo si aggiunge la nostra sensibilità di artisti che comunque hanno attraversato il periodo del folk revival in cui le coordinate estetiche sono cambiate. Abbiamo tenuto un atteggiamento rigoroso perché abbiamo cercato di rispettare al massimo lo spirito della spettacolo e nello stesso tempo ci siamo presi alcune libertà artistiche.

Qual è la forza emotiva di «Bella Ciao»?

Devo dire che siamo tutti sempre stupiti dall’impatto che questo spettacolo ha sul pubblico anche in questo terzo millennio. Notiamo anche un grande interesse da parte dei giovani che poco o nulla sanno di quegli anni. All’inizio credevamo che la platea sarebbe stata composta solo da «nostalgici» del passato che avevano voglia di risentire certe musiche con cui avevano trascorso la loro giovinezza ma in realtà queste canzoni hanno ancora oggi una grandissima forza perché parlano dei temi universali dell’uomo, che sia il lavoro, che sia l’amore, che sia la festa. Questo si accentua in un periodo storico come il nostro, in cui i valori sono importanti perché in molti casi se ne sente l’assenza e la mancanza. La gente ha bisogno di nuovi ideali che affondano le radici anche nel passato, e proprio una canzone come «Bella ciao» è diventata un simbolo, anche internazionale, contro le ingiustizie sociali.

C’era qualcosa che la preoccupava quando le hanno chiesto di metter mano a questo spettacolo?

La mia unica preoccupazione era il «giudizio» della vecchia guardia, quella che aveva fatto un lavoro importantissimo e prezioso nella musica italiana, ma che è ancora in molti casi impregnata, rispetto alle nuove generazioni, di una certa ideologia, di un certo sentimento in cui tutto è estremamente ideologico e la musica popolare non ha sempre questa accezione. Quindi avevo un certo timore di questo giudizio, ma mi sembra che alla fine abbiamo messo d’accordo un po’ tutti e siamo contenti di questo grande successo che «Bella Ciao» sta riscuotendo a livello internazionale. Abbiamo riempito la Concert House di Vienna, suonato in Macedonia e in Normandia. Pensavamo che all’estero, senza la forza dei testi fosse più difficile, invece abbiamo trovato grandi apprezzamenti.

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