Eminem, storico concerto In 80mila per lui a Milano
Il 7 luglio a Milano è bastato poco più di un’ora e mezza a Eminem per riprendersi il titolo di «Rap God». Sono passati quasi vent’anni da quella «My Name Is» che proiettò la sua carriera verso 250 milioni di dischi venduti, quindici Grammy, un Oscar e la fama di rapper più influente del primo decennio del nostro secolo. Eppure solo oggi Eminem si presenta dal vivo al pubblico italiano, riunito all’Area Expo per la data unica nel nostro Paese del «Revival Tour». Un evento a dir poco atteso, andato tutto esaurito in poche ore, e premiato con una scaletta che non tralascia quasi nessuna delle sue hit, senza trascurare alcune chicche. A partire dalla canzone che apre il concerto, dopo un’introduzione cinematografica in cui il rapper veste i panni di un Godzilla che devasta una città: è «Medicine Man», dall’album «Compton» di Dr. Dre, quasi un omaggio alla leggenda dell’hip-hop californiano che scoprì e lanciò il giovane dai capelli ossigenati e dal flow rapidissimo.
Un fenomeno unico che sovvertì gli equilibri del rap americano: un artista non proveniente dai palazzoni popolari delle periferie metropolitane, ma dalle roulotte dei sobborghi depressi del Midwest; un bianco capace di stupire e ispirare l’audience afroamericana. Le radici di Eminem sono sulla scena, con un’antenna radiofonica con il logo 313, riferimento alle prime stazioni locali di Detroit che gli diedero spazio. Tutt’altro scenario oggi, con boati e cori fin da subito, su «3 a.m.», «Square Dance» e «Kill You». Mentre i fuochi d’artificio illuminano la serata, un ottetto d’archi fiorisce molti dei beat, dando un passo epico alla veloce (e acclamata) successione di «White America» e «Rap God». Su questo brano i veri fuochi d’artificio sono quelli delle barre di Eminem, rime intricate, serrate e rapidissime che ne mettono in mostra il talento lirico. Non solo le sue acrobazie l’hanno reso un fenomeno rivoluzionario del genere: ma una poetica intimista che emerge nelle rap ballad. Più del ventennale del suo successo, per Marshall Mathers, conta il decennale della sua astinenza da sostanze, recentemente annunciato pubblicamente. Dopo «Forever» la scaletta tocca allora momenti personali e pietre miliari: «Just Don’t Give A Fuck» dal primo album cui segue «Framed» dall’ultimo disco, «Revival», quindi la controversa «Criminal». Segue una successione profondamente personale, con l’esistenzialista «The Way I Am» e il rap gospel «Walk on Water» cantato da Skylar Grey al posto di Beyoncé.
Accompagnata da cori rombanti, la diafana cantante intona anche la tormentata «Stan» e «Love the Way You Lie». L’energia horror-core e crossover si riaccende su «Berzerk» e «Cinderella Man». Il controllo del palco, delle rime e del mood è totale quando i bpm si riabbassano per «River», altro brano recente con Ed Sheeran, e quindi «The Monster», la calma che precede un finale tempestoso, che Eminem presenta così: «Volete tornare con me a un tempo in cui ero ancora più scemo di oggi?». Rivestendo i panni di Slim Shady, presenta allora un medley «My Name Is», «The Real Slim Shady» e «Without Me», coperto dai canti degli 80mila. Un sentimento che si amplifica con «Not Afraid» e il bis «Lose Yourself», ritratto autobiografico dell’artista che lotta duro per il successo. Un’immagine così lontana dal trionfo di un’ora e mezza attesa per vent’anni.