Roma, l'amarcord in bianco e nero di Cuaron
Roma di Alfonso Cuaron, film in bianco e nero passato in concorso al Festival di Venezia e molto applaudito a fine proiezione, incanta e commuove. Ma la cosa che resta più impressa è la sua capacita di trascinarti fin dentro la storia di questa famiglia che vive a Città del Messico nel 1971, diventare, poco a poco, un loro parente e così inevitabilmente soffrire e gioire per tutto quello che gli capita. È insomma, come riconosce al Lido lo stesso regista messicano due volte premio Oscar, il suo personalissimo Amarcord, la sua memoria in bianco e nero girato in un perfetto realismo.
«Il 90% delle cose che si vedono in Roma (il titolo è solo il nome di un quartiere della Città del Messico “bene”) vengono dalla mia memoria. Ho fatto una ricostruzione identica della casa originale in cui vivevo e ho trovato anche il 70% dei mobili che la arredavano. Ho ricostruito poi anche la strada della mia infanzia mentre il posto del massacro del Corpus Christi (la violenta repressione nel 1971, con tanto di morti, di una protesta studentesca) è quello vero. Quegli anni sono un momento che mi ha formato, ma anche un momento che ha trasformato profondamente il mio Paese».
«Roma» racconta tante cose attraverso la storia due donne abbandonate di classi diverse, anzi lontanissime, dai loro rispettivi compagni. Da una parte c’è Cleo (la straordinaria Yalitza Aparicio) giovane domestica mixteca sedotta e abbandonata dal suo ragazzo e, dall’altra, la sua padrona, la signora Sofia (Marina de Tavira) a sua volta lasciata dal marito, Antonio (Fernando Grediaga), con il quale ha avuto quattro figli ancora adolescenti.
Queste due storie parallele sono vissute all’interno di una famiglia che va avanti, nonostante tutto, tra cose non dette, piccole e grandi tragedie e in cui ognuno rappresenta il suo naturale carattere. Sofia, dalla sguardo dolce, ha la sfortuna di avere incontrato il fidanzato sbagliato, violento, fragile e falso, mentre la sua padrona di avere un marito fedifrago.
«È tutto così naturale in Roma - spiega Cuaron al Lido - grazie soprattutto alle due protagoniste che hanno saputo lavorare con spontaneità in un film girato in sequenza. I bambini, ad esempio, non sapevano niente di cosa avrebbero fatto di lì a un momento dopo, ma erano guidati dalle sole situazioni in cui si trovavano».
E se questo film più reale del reale e con una ricostruzione degli ambienti impressionante vincesse il Leone d’oro? Sarebbe la prima volta per un film targato Netflix (sarà a dicembre sulla piattaforma in contemporanea con alcune sale selezionate), ma alla domanda Cuaron replica senza battere ciglio: «Non ho il problema di Netflix, in realtà è una battaglia che non capisco.
Tanta gente non ha la possibilità o il tempo per andare al cinema e questa piattaforma ti dà la possibilità di vedere il cinema. Che c’è di male?».
Tra le molte scene cult di «Roma», quella che vede protagonista un approssimativo guru delle arti marziali che fa una stage, in una giornata piene di vento, a un centinaio di praticanti con tanto di bokken (bastone da combattimento) in mano.
«Si riconosce Cuaron è vero, è lo stesso vento di Fellini. Al montaggio di questa scena mi hanno suggerito, perchè non metterci un vento felliniano sullo sfondo. E così lo abbiamo fatto».