Europa, tramonto e poi la tempesta
Vi sono momenti morbosi e confusi nella Storia in cui gli eventi del presente non possono più essere compresi dalle persone coinvolte: il vecchio mondo (nel quale era nate e costruito progetti di futuro) che aveva definito gli orizzonti del domani sta rapidamente naufragando.
Ma chi ne è inconsapevolmente testimone non ha occhi per vederlo. Il mondo nuovo fatica ad emergere e non se ne intravvedono le forme e i modi. Il parto del nuovo mondo non sarà certamente indolore, le doglie possono essere lunghe e dagli esiti indecifrabili. Uno di questi momenti è stato certamente l’inizio del secolo scorso, come hanno, con sottolineature e strumenti diversi rilevato storici, artisti e letterati soprattutto, ma non solo, che erano stati cittadini dell’Impero austro-ungarico e dell’Impero tedesco.
Il regista ungherese Làszlò Nemes (autore del memorabile «Il figlio di Saul», con cui vinse a Cannes e nel 2016 l’Oscar per il miglior film straniero) con Tramonto (Napszàlta) indaga proprio sulla condizione di chi è stato testimone disorientato e impaurito degli anni che hanno segnato la fine della vecchia Europa. Lo fa con estrema efficacia espressiva grazie, anche, ad una sceneggiatura perfetta e a un rigore figurativo che ha contraddistinto in passato la cinematografia magiara con maestri come Jancsò e Tarr.
Budapest 1913: la seconda delle città dell’Impero nel cuore dell’Europa, fiorente e orgogliosa. È qui che ritorna Irme Leiter, figlia del proprietario di un elegante negozio di cappelli per signora. Il palazzo fu distrutto da un incendio in cui morirono i suoi genitori. Lei, dopo un periodo in orfanatrofio fu mandata a Trieste. Tutti la spingono ad andarsene e a non scavare nel passato. Ma, come il protagonista di «Il processo» di Kafka, è spinta da una forza interiore a restare, a indagare, a incontrare persone ambigue che confessano mezze verità, ad affrontare situazioni indecifrabili e inquietanti, ad essere testimone di menzogne, ipocrisie, violenze. Diviene una sorta di naufrago in una tempesta che non può evitare.
L’approdo è la tragedia della Grande guerra, un antro in una trincea, nel buio, ancora più spaesata e sola, prigioniera di un domani senza futuro.
Un lavoro straordinario che, a ben vedere, riguarda anche la realtà europea contemporanea che, settant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si propone spesso come un labirinto pieno di ostacoli e di zone buie, con le lampade e le bussole del passato recente che stanno perdendo la capacità di fare luce e di suggerire il senso delle mete che vengono proposte.
Uno dei più originali e importanti dei titoli in concorso per il Leone.
Lo stesso si può dire (anche se il film non è pienamente riuscito) di Che fare quando il mondo è in fiamme? (What You Gonna Do When the World’s on Fire) di Roberto Minervini, un cineasta nato in Italia che si è formato professionalmente e vive in America, apprezzato per la sua capacità di coniugare l’approccio documentaristico con la narrazione di vicende ordinarie di personaggi esemplari che non sono attori di professione.
Il tema è quello della condizione degli afro-americani negli States trattato attraverso le vicende velleitarie dei militanti di un gruppo delle Pantere Nere, di una madre sola con due figli, un ragazzino e un bambino, che vuole tenere lontani dai pericoli delle strade e di una donna sola e orgogliosa con alle spalle un’infanzia e un’adolescenza in cui ha subito stupri e varie forme di sfruttamento. Una condizione chiusa e senza immaginabili vie di riscatto fatta emergere con cupo disincanto.