Pere Ubu a Sanbapolis Il rock chen non si ferma mai

di Fabio De Santi

Sono stati tra gli alfieri della nascita della new wave prima e dell’alternative rock poi, e sono generalmente considerati uno dei complessi più rivoluzionari del rock contemporaneo. Queste le credenziali dei Pere Ubu la formazione nata a Cleveland in Ohio nel 1975 e guidata da sempre dal massiccio David Thomas che venerdì, alle 21, approderanno al Teatro Sanbàpolis per la rassegna Transiti nell’ambito del tour europeo legato al nuovo album Long Goodbye che mutua il titolo dal classico «hard boiled» di Raymond Chandler. Di questo disco e dell’universo Pere Ubu abbiamo parlato proprio con David Thomas, in questa intervista realizzata grazie alla collaborazione di Rita Seneca, che racconta anche di non aver nessuna nostalgia del passato.de

«Long Goodbye»: come è nato questo disco?

«L’ho scritto quando ero gravemente malato e mi era stato detto che sarei potuto anche morire. Volevo che fosse l’album in grado di risponder a tutte le domande che avevamo posto negli ultimi quarant’anni, quindi mi trascinavo ogni giorno in studio per scriverlo. Quando l’ho finito tutti hanno detto che era pronto per essere pubblicato: volevo che fosse un disco in stile Pere Ubu in grado di legarsi a tutti gli altri nostri dischi e credo questo album ci riesca. L’intera storia è raccontata nell’opuscolo incluso nell’album: non è la fine ma solo la fine di quella particolare strada».

Dal punto di vista dei suoni ci sembra di trovare i Pere Ubu di un album fondamentale, come «The Modern Dance».

«In qualche modo credo sia così. “Modern Dance” ha influenzato persone diverse in tempi diversi, mentre “The Long Goodbye” trae profitto dall’esperienza appresa da quel momento ad oggi».



C’è un filo conduttore nei testi di questo album?

«Prende il nome dal libro di Raymond Chandler, che è stato scritto mentre sua moglie stava morendo. È una storia di speranza e tradimento. Viaggia per le autostrade e le strade secondarie d’America. Raccontiamo le cose che vediamo tutti in quei viaggi».

Veniamo al live: che sei portate in questo tour in Europa?

«Nello spettacolo c’è il nuovo album nella sua interezza, il nostro primo singolo “Heart of Darkness” e il bis di alcune canzoni opportunamente noir che dovrebbero scuotere le persone».

Le ha mai pesato il ruolo di cult band del post punk e new wave che hanno, anche da noi in Italia, i Pere Ubu?

«Non mi fa nessun effetto. Qualcuno, ho letto su Twitter, sosteneva che siamo considerati post punk anche se siamo nati prima del punk. Le etichette vengono usate per catalogarti, inscatolarti ma non mi sono mai interessate più di tanto. Diciamo che sono comode i giornalisti».

Cosa le manca maggiormente dell’atmosfera musicale degli anni ’70?

«Niente. Se passi il tempo a concentrarti su ciò che ti manca, non andrai da nessuna parte. Se non ti concentri su ciò che non è ancora accaduto, come potrai mai fare qualcosa che ti spinga verso nuovi limiti?»


Ed ora come vede il rock americano sommerso dai ritmi del rap?

«Il rock andrà avanti. Il rap continuerà. Inserisci i mille altri nomi di generi musicali e verranno suonati anche loro per molto tempo come accade per la musica classica. Ed è giusto e bello così. A volte le cose più interessanti accadono nell’ombra».

Si dice che questo tour potrebbe essere l’ultimo capitolo dei Pere Ubu: cosa ci può dire a questo proposito?

«È l’ultimo capitolo di questa strada dei Pere Ubu. Questo non vuol dire che non ci sarà un’altra strada. Non sono ancora morto».

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