Il nuovo libro di Mauro Corona con Matteo Righetto
«Il passo del vento. Sillabario alpino» (titolo dell’ultimo libro di Mauro Corona e Matteo Righetto) si sposa con l’arte lenta della distillazione. Per scoprire che forse hanno qualcosa in comune.
Ieri alle Distillerie Marzadro di Nogaredo è stato presentato il volume dello scrittore di Erto e del docente padovano, accomunati dalla passione antropologica e culturale per le «terre alte» e la scrittura di montagna. Nel sillabario, intorno a parole come «alba», «albero», «baita», «barba», per citarne solo alcune, i due scrittori improvvisano brevi racconti, riflessioni in libertà, aneddoti. Prima uno, poi l’altro, senza condizionarsi.
Corona, com’è scoccata la scintilla tra lei e Righetto per questo lavoro a quattro mani?
«La correggo subito. Direi un lavoro a due teste. Lo conoscevo da quando ha pubblicato “La pelle dell’orso”, da cui è stato tratto un film. Ci siamo “annusati”, come direbbe Mario Rigoni Stern. E non ci siamo morsi, ma siamo andati via insieme. Siamo andati all’osteria e ci è venuta l’idea di un sillabario sulla montagna alpina, sulle orme dei sillabari di Goffredo Parise. Ci è anche piaciuta l’idea di vedere come ognuno di noi, diversissimo dall’altro, potesse affrontare gli stessi temi».
Qual è la diversità maggiore tra voi due?
«Lui è un professore di città, ma conosce bene la montagna. Io sono un montanaro che ha avuto un’infanzia molto cruda, per non dire feroce, con un padre picchiatore, in un luogo povero. Andavo “a elemosina” con mia nonna. Non siamo figli dei nostri genitori, ma di ciò che ci accade. Il nostro pensiero è il risultato del nostro vissuto. Ad esempio, per Righetto l’alba è spiare camosci e marmotte in montagna. Per me è la caccia, dove venivo portato già da bambino a Erto, con il sangue delle bestie sulla neve».
Righetto e lei avete dedicato il libro ad Alex Langer e Andrea G. Pinketts. Come mai?
«È un tributo a gente in gamba. Accomunati da un destino breve. Uno per sua volontà, uno per malattia. Gente vera, che non mentiva, che non recitava per essere apprezzata. Ci mancheranno sempre di più».
Lei che viene dalla dura montagna friulana, spopolata, poco turistica, come guarda al Trentino e al suo approccio all’ambiente montano?
«Come a un modello. Il Trentino è una provincia fortunata. Per suoi meriti; non è nata fortunata. Ha avuto classi politiche di ampie vedute. È un modello che spero si conservi. Ma, attenzione: basta un attimo per distruggere. Succede se un’amministrazione si aggrappa a ideologie non in linea con i concetti montanari dell’accoglienza, della solidarietà, dell’avere cuore, della tolleranza».
Vede analogie tra il suo Friuli e il Trentino, entrambi, da circa un anno, a trazione leghista come il Veneto?
«Ho conosciuto, non mi ricordo a quale manifestazione, il vostro governatore Maurizio Fugatti e mi fa piacere sapere che sta dedicando attenzione a chi vive in montagna e ai problemi delle valli. Al mio presidente regionale Massimiliano Fedriga dico di buttare un occhio quassù, di non guardare solo al porto di Trieste. I servizi sono fondamentali: se chiudi ospedali, uffici postali, punti nascita, la montagna è finita. I numeri non devono contare. Nella mia Erto non c’è un tabacchino, non c’è un negozio di frutta e verdura, non c’è l’ufficio postale, non arrivano i giornali».
Come si raggiunge l’equilibrio tra salvaguardia dell’ambiente e condizioni di vita ed economia sostenibili per chi resiste in montagna?
«Cito ancora Rigoni Stern: la montagna va adoperata, non sfruttata. Se serve un impianto da sci perché un paese non si spopoli, facciamolo. Il problema ambientale sono 7 miliardi di persone sulla Terra che vogliono tutte muoversi in automobile ed essere a stomaco pieno. La burocrazia sta uccidendo anche le sagre d’agosto. Era poco la “sagra della braciola” per i paesi di montagna, ma ci stanno togliendo anche quella. Servono idee per far decollare le zone di montagna in crisi. La buona amministrazione, come un bisturi, deve poi applicarle».
Se non ci fermiamo in tempo nello sfruttare il territorio…?
«Non c’è futuro. La Terra è un materiale che finirà, se la portiamo allo sfinimento. Come ho scritto in “Il mondo storto”, bisognerà ripartire da zero. Andare da Erto a Belluno, ad esempio, a piedi, per capire cosa vuol dire, come facevano i miei nonni. Il resto è demagogia. Lasciamo stare Greta Thunberg. Non vedo una mossa che sia una per migliorare la salute del pianeta. C’è persino chi dà la colpa alle stufe a legna… E le auto, le fabbriche inquinanti?».
Che idea si è fatto del disastro provocato dalla tempesta Vaia sulle «sue» Dolomiti?
«Prima di tutto devo dire che mi sta sulle scatole che quel disastro sia chiamato Vaia. Con il nome della sorella di un tedesco che ha pagato per dare un nome a fenomeni meteorologici. Stiamo scimmiottando gli americani. I milioni di tronchi caduti hanno ancora due anni di vita, visto che sono crollati con la luna calante di novembre. Raccogliamoli senza questa becera e indegna burocrazia che blocca tutto. Diamo lavoro a chi muore di inedia e non ha più speranza».
E il disastro dell’acqua alta da record a Venezia, dove ogni martedì lei è ospite in collegamento tv?
«Il Mose è un’opera inutile. Quattrocento manine di metallo non fermeranno il mare. Sono una palla di ruggine costata uno sproposito. Venezia è condannata a sprofondare: è costruita su pali di legno che arrivano anche dai vostri boschi trentini. Copiamo gli Olandesi. Costruiamo piuttosto muri, anche se si sacrifica in parte la bella visione della città».
Cosa le ispira la presentazione di questo sillabario in un contesto inedito come una distilleria?
«Direi che è – al di là di considerazioni picaresche – un luogo speciale per fare cultura. Un luogo di manualità, di scoperta della lentezza della distillazione. Amo gli alcolici e i distillati, anche se da tempo li consumo con moderazione».