Il dolore che si fa bellezza L'addio a Ezio Bosso

di Alberto Faustini

Il dolore che si fa bellezza. Il gesto che si fa poesia. La sofferenza che si fa arte. La disabilità portata con un pudore sfrontato, carico di malinconia e di gioia, di ferite rimarginate, di fatiche sconosciute, a tratti solo intuite, e di note ancora da suonare, ancora da comporre, ancora da affidare ad altri: i musicisti da dirigere con una bacchetta che si faceva ferma e decisa, nella fragile delicatezza di un movimento che è sempre diverso anche quando lo spartito è lo stesso. Rigore, sacrificio, disciplina.

Al padre, nella Torino operaia travolta dal terrorismo, dissero: «I figli degli operai fanno gli operai». E lì è iniziata la sua lotta: la distruzione degli ascensori sociali che sono sempre bloccati, in questo Paese; l’annientamento dei tanti stereotipi che gli hanno cucito addosso. Diceva: «Io resto a difendere il mio modo di fare musica, che è un modo sacrificale, di impegno assoluto. Perché non basta - aggiungeva schiaffeggiando la retorica - metterci il cuore. Serve impegno, fatica».

Poteva fare il personaggio, in quest’Italia sempre in cerca di idoli. Invece è rimasto se stesso. Fino alla fine. Facendo vivere la musica. Facendola sua. Lasciandocela in dono. Diventando - grazie anche a quel Sanremo che lo fece scoprire al grande pubblico - uno di famiglia. Anche se in pochi possono dire d’averlo conosciuto davvero, Ezio Bosso, lo straordinario artista che è morto ieri a 48 anni - dannatamente presto -, sconfitto da uno dei tanti mali con i quali aveva combattuto.


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