Le poesie di Sandro Boato in un libro edito da Morcelliana
Per la prima volta, in questo volume ottimamente curato da Odilia Zotta ("Là dove core el me pensier in fuga", Morcelliana, Brescia, giugno 2020) viene proposta l'intera opera poetica di Sandro Boato (Venezia 1938-Trento 2019), fino ad ora affidata a libretti dimessi e difficili da reperire, per la scelta dell'autore di pubblicare i suoi versi in fascicoli di fattura casalinga e inviarli a pochi amici. La qual cosa ha di fatto impedito una più larga circolazione della sua poesia, lasciando quasi in ombra questo aspetto della sua creatività che pur essendosi esplicata in altri direzioni ha di certo avuto nel poetare la sua manifestazione più connaturale e duratura.
La raccolta, divisa in dodici sezioni, si apre con un cospicuo capitolo incentrato su Venezia, la città «de piera e aqua»: la pietra bianca d'Istria che ne caratterizza l'architettura e l'acqua della laguna, piccolo mare prima del mare vero e proprio, con il suo paesaggio inconfondibile. Non poteva essere diversamente. Venezia è la città natale del poeta, luogo dell'adolescenza, della giovinezza, della formazione e qui si sono venuti via via modellando i suoi stampi immaginativi. Boato canta tutti i luoghi di Venezia. Senza compiacimenti contemplativi ma con vera passione. I palazzi, le chiese, i campielli, le calli, i ponti, i canali, il mercato di Rialto, il cimitero di san Michele, il ghetto, le isole, la laguna. Architettura, acqua, natura, nelle ore topiche del giorno, nel variare della luce, nel trasmutare delle stagioni.
In un continuum descrittivo teso a configurare una profonda unità di città e paesaggio, di storia e natura, di arte e natura. Sono tutti questi elementi, interconnessi e inseparabili, che hanno fatto di Venezia un organismo urbano di grande bellezza dove si potrebbe ancora vivere seguendo i ritmi di un tempo qualitativo e a misura d'uomo, come dicono le strofe sognanti di «Co rivo rivo» (pp.42-43).
Ma Boato è anche dolorosamente consapevole del fatto che Venezia è un organismo assai fragile e come tale rischia di subire modificazioni esiziali. Per l'assalto soffocante dei turisti, per l'inquinamento, per l'incuria, l'indifferenza e le opere invasive degli uomini. Basta leggere, a conferma, testi come «Diessila» (pp.57-59), «Verso sa' Marco» (pp.59-61) e soprattutto «Venessia a torzio» (pp.74-75) dove l'accorata descrizione dello stato periclitante della città sfocia in una domanda angosciante sul suo destino futuro: «El giro de stagion / ghe darà vita ancora?»
A partire dalla seconda sezione intitolata «L'urlo e il silenzio» prende pienamente corpo il versante che insieme all'espressione lirica ha contrassegnato fin dall'esordio, avvenuto nel 1963 con una plaquette fuori commercio, l'agire poetico di Boato, e cioè quello civile.
I trentacinque testi che la costituiscono sono stati composti tra il 1989 e il 2011, un arco temporale che l'autore ha descritto così: «Esteso dalla caduta del muro di Berlino [ ] ai più recenti sconvolgimenti climatici ed ecologici, alle tante guerre in corso, al terrorismo diffuso e alle crescenti migrazioni di massa che interrogano l'intera umanità sulla capacità di conservare e governare la Terra».
Di fronte a queste drammatiche emergenze il poeta, per Boato, non può tacere. E pur consapevole dei rischi a cui la parola poetica si espone quando sceglie di prendere esplicitamente posizione sui conflitti e sui problemi in atto, deve correrli, nella segreta speranza che essa possa, almeno un poco, contribuire a scuotere e a sollecitare la coscienza del lettore.
È da questa chiara determinazione che riceve energia un percorso di sperimentazione civile capace di produrre un progressivo allargamento dell'orizzonte tematico, con un discorso che si fa davvero protesta a tutto campo, fino a coinvolgere una parte consistente della produzione poetica di Boato. Per essere precisi: in toto la già citata seconda sezione, la successiva intitolata «Metamorfosi» e vari componimenti disseminati nelle altre sezioni che, non di rado, raggiungono esiti notevoli.
Le prime pagine del capitolo intestato «Non dir amor» pullulano di figure femminili tratteggiate con mano felice. Sono apparizioni improvvise, affiorano dalla memoria, richiamano un luogo, marcano un tempo della vita. Il poeta ne fissa un gesto, una movenza, un sorriso, un dettaglio fisico in versi freschi che comunicano meraviglia e bellezza. Altre liriche cantano il fascino della natura, gli affetti familiari, l'amicizia, con un linguaggio intessuto di tenera leggerezza.
In quello successivo, «Candele», invece, domina assoluto il tema della morte. Boato rievoca con accenti di profonda pietas la scomparsa dei propri genitori, di molti amici e amiche e di alcune persone note. La sua parola fraterna descrive percorsi troppo presto interrotti, richiama tratti e sembianze, rivive utopie e progetti condivisi, esprime dolore e smarrimento.
Infine ecco le tre sezioni più brevi di questo libro: Non solo gatti, Divertissement, S'cenze, che mi pare possibile accorpare sotto la denominazione «divertimenti» utilizzando le sfumature di significato che la parola francese divertissement contiene e cioè «divertimento, svago» e «piacevole diversione letteraria». Perché è di questo che si tratta. Boato le ha sentite come divagazioni rispetto al filo conduttore della sua ricerca poetica ma anche come semplice divertimento che riguarda, a un tempo, i contenuti e lo stile. Basta seguirlo nella serie dedicata ai gatti per convincersene: con che passo lieve ha saputo entrare in un mondo come quello felino già esplorato da legioni di scrittori! C'è ironia, c'è leggerezza, c'è affetto frizzante, c'è gioco sagace di rime e assonanze nei suoi versi.
Nel suo itinerario poetico Sandro Boato ha privilegiato il veneziano, l'italiano e talvolta come documenta in parte questo volume lo spagnolo, l'inglese e il francese. La lingua veneziana con una adesione talmente convinta e consapevole da dare l'impressione, almeno fino ad una certa data (diciamo il 2006), di una scelta pressoché esclusiva. L'analisi ravvicinata dei testi dice però che il nostro autore non ha inteso affatto ricorrere al dialetto per scavarsi una nicchia nell'alveo di uno strumento minoritario e rimanervi adagiato, ma per tentare di ampliarne le potenzialità tematiche, metriche e semantiche.
Siamo dunque in presenza di un poeta plurilingue che ha utilizzato liberamente vari idiomi lasciandosi guidare unicamente dalle sue esigenze espressive e rimanendo fedele, con puntigliosa coerenza, a una concezione di poesia umana, sociale e stilisticamente asciutta, che ne fa una voce sicura, riconoscibile e autentica.
Sandro Boato, Là dove core el me pensier in fuga, prefazione di Adriano Sofri, Morcelliana, 392 pagine, 30 euro