Hervé Barmasse, il Covid e la montagna: "Il turismo dello sci è in crisi, e lo era già prima: va ripensato il modello"

di Flavia Pedrini

Hervé Barmasse, forte alpinista valdostano e celebre guida alpina del Cervino, vive la montagna con lo spirito di un novello D’Artagnan. «L’uomo resta un ospite e gli alpinisti - dice - devono difenderla».
L’approccio alla scalata è lo stesso dei grandi alpinisti del passato. Il 42enne di Valtournenche segue le orme tracciate da Walter Bonatti e Reinhold Messner, il re degli Ottomila, che parlando di lui ha osservato: «Tempo fa ho detto che l’alpinismo era fallito, ma oggi dico no, non è vero, perché ci sono giovani come Hervé Barmasse».
Ecco perché, seppure dietro la spinta di un evento terribile come la pandemia, Barmasse si dice convinto che questa possa essere l’occasione per riscoprire un modo più autentico di vivere la montagna, ma anche di ripensare un modello turistico che non punti solo sui caroselli e abbia come bussola rispetto per l’ambiente e sostenibilità.

L’alpinismo e, più in generale la montagna, da sempre, sono sinonimo di libertà. Come si possono vivere in questo momento, con i limiti e i divieti legati alla necessità di contenere l’epidemia?
«I limiti che ci vengono imposti in montagna sono gli stessi imposti a tutti sul territorio italiano. Ma si è visto questa estate e lo dimostra anche la possibilità di ciò che sarà la stagione futura invernale: la montagna, secondo me, ci predispone a rispettare le regole, senza indurre le persone agli assembramenti. I grandi spazi, la natura incontaminata, danno la possibilità di vivere in modo autentico la montagna, purtroppo anche lontano dalle piste da sci. Dico purtroppo, perché sappiamo benissimo che ci sono località che hanno improntato tutto sullo sci su pista e se questa attività viene tolta, ne subiscono gravi danni economici. Ma ricordo che gravi danni economici si stanno vivendo in tutti i settori in Italia».

La montagna, insomma, non sono solo le piste da sci.
«Possiamo vivere la montagna come i nostri antenati, i miei nonni, i bisnonni, che lo facevano in un modo che definirei più “sobrio”, frequentandola con passeggiate, con lo scialpinismo, con le ciaspole, le racchette da neve, prendendosi il tempo per godersi il panorama e il sole. C’è un altro modo di muoversi in montagna. E questa estate ne abbiamo avuto la prova. Chi ama la montagna non la lega solo agli impianti da sci. E questo, aggiungo, potrebbe essere anche un momento di riflessione».

Su un modello diverso di turismo montano?
«Le località in montagna, con l’eccezione di quest’anno, che quasi vuole farsi beffa di questa situazione, non vivono più inverni con tanta neve. Dunque si dovranno comunque ripensare la montagna e il turismo. Non possiamo credere di continuare a vivere nei prossimi anni offrendo solo, come portata principale, lo sci su pista. E c’è un altro aspetto».

Quale?
«Come ho detto in una recente riunione fatta per i soci del Cai, noi - parlo dei professionisti della montagna e di chi gestisce le località turiste di montagna - abbiamo perso una grande occasione. Da una parte, con chi governa, è giusto porre l’accento sui problemi del settore, ma dall’altra si sarebbe dovuto sottolineare ciò che di positivo c’era. Nel momento in cui tutta la comunicazione raccontava come la montagna avrebbe accolto le scelte del governo, si doveva veicolare un messaggio diverso, dicendo: “Certo, con la chiusura degli impianti da sci subiamo un danno importante, ma per fortuna la montagna non è solo lo sci. Speriamo che tutto questo finisca presto, ma nel frattempo invitiamo le persone a venire in montagna perché abbiamo molto altro da offrire”».

Nei racconti delle sue scalate, spesso in solitaria, ricorre il termine avventura. È possibile vivere questa dimensione anche a due passi da casa?

«Secondo me questa è l’occasione per scoprire i nostri territori. Facciamo mente locale, conosciamo bene il nostro territorio? Io avrei tantissime montagne da esplorare. E, a proposito di avventura, vorrei dire che questa dimensione la creiamo noi, semplicemente andando su un sentiero che non abbiamo percorso, provando lo scialpinismo se siamo abituati allo sci su pista, cambiando vallata.

Ci sono mille modi per esplorare, ma dobbiamo volerlo. E per volerlo non dobbiamo lamentarci, ma creare opportunità. Siamo tutti consci che le cose non vanno come vorremmo, ma cosa dobbiamo fare? Non credo che il governo “voglia” attuare norme cosi restrittive, perché nessuno ci guadagna. Dunque, rispondendo a questa domanda molto semplice, forse dobbiamo prendere atto che il problema è serio e porci noi l’idea che la nostra quotidianità si debba vivere in modo diverso. Anche rispetto alla frequentazione della montagna».

Nel suo dizionario la parola montagna non è mai disgiunta dalla parola sostenibilità.
«La montagna più autentica, che possiamo vivere anche nelle nostre valli, ti obbliga ad avere rispetto per il territorio. Lo sci su pista, ad esempio, e lo scialpinismo, sono due mondi diversi. Il silenzio, la quiete e la natura più selvaggia, il passo lento della salita e una discesa che non sarà veloce come quella su pista, già ti fanno entrare in un’altra dimensione, che ha bisogno di rispetto. L’uomo, comunque, rimane ospite della montagna. Ormai l’obiettivo non è più la sfida sportiva. Oggi l’obiettivo è cercare di mantenere intatto questo ambiente, che noi valorizziamo anche con le gesta di scalatori, ma che per me rimane il nostro più grande giardino».

Il mondo è alle prese con una pandemia, ma il pianeta non sta meglio e i ghiacciai sono in agonia. Un problema che riguarda tutti, non solo chi frequenta la montagna.
«L’ho ricordato in occasione della Giornata internazionale della montagna (l’11 dicembre): in realtà non è che noi dobbiamo salvare il pianeta, noi dobbiamo salvare noi stessi da quello che stiamo facendo al pianeta. La catastrofe riguarderà l’uomo, mentre la vita continuerà ad esistere. Se pensiamo che il il 60-80% delle acque dolci arriva dai territori di montagna, significa che una volta che i ghiacciai si saranno sciolti, il problema non sarà fare o meno lo sci estivo, ma che non ci sarà più acqua da bere. L’alpinismo è un bel gioco, ma deve restare tale. Per questo l’alpinista dovrebbe puntare a qualcosa di più che scalare le montagne. L’alpinista dovrebbe essere il D’Artagnan delle montagne, quello che le difende».

Un’immagine molto poetica.
«Sì, molto romantica, ma se ci guardiamo in giro, sembra di vivere un medioevo della montagna. Basta pensare a cosa succede oggi sul K2, l’ultimo Ottomila a non essere stato salito di inverno. Tutti pronti a partire, ma non interessa se poi andranno a imbrigliare di corde fisse la montagna. La plastica verrà abbandonata, si userà l’ossigeno, dunque sulla cima del K2 non si sarà ad una quota reale, eppure questo non importa. L’ego è cosi grande che l’idea è che l’uomo possa fare tutto. Ma questo me per è il messaggio più sbagliato».

In questi giorni fa discutere l’ordinanza del governatore della Valle d’Aosta che, fino al 20 dicembre, prevede la possibilità di fare scialpinismo solo se accompagnati da una guida alpina o da un maestro. Cosa ne pensa?
«Ho ascoltato anche le ragioni del presidente della Regione, che poneva l’accento sull’interessamento delle terapie intensive e dell’ospedalizzazione legato agli incidenti in montagna. Un aspetto da ricordare anche in relazione alla chiusura degli impianti da sci: sull’arco alpino, durante le vacanze di Natale, si contano in media 20-25 mila incidenti. Dunque c’è un problema. Però su questa scelta della Regione non sono d’accordo: o dai la possibilità a tutti o la togli a tutti. Queste distinzioni stonano a mio parere».

Il rischio zero in montagna non esiste. Vista la sofferenza del sistema sanitario, il richiamo alla prudenza è d’obbligo, soprattutto per i neofiti. Cosa consiglia?
«Il consiglio per chi non conosce un certo tipo di montagna è di avvalersi dei professionisti. Ma oggi consiglierei a tutti più prudenza, per questo senso di responsabilità che abbiamo dimostrato nel primo lockdown e che oggi stiamo patendo. Ma ci sono dei dati inconfutabili: non possiamo non pensare a chi sta peggio, alle persone che muoiono ogni giorno. Questo, lo preciso, non significa non muoversi, ma facciamolo con la testa e con dei professionisti, se abbiamo paura di rischiare troppo».

Lei è stato spesso in Trentino. Il Cervino è la sua montagna del cuore, ma se dovesse sceglierne una qui.
«C’è il Cervino delle Dolomiti, il Cimon della Pala, la Marmolada, ce ne sono molte. Penso che tutte le montagne siano belle, tanto che con la famiglia, quando tutto questo sarà finito, stavo pensando di trasferirmi e vivere un anno in Trentino, nelle Dolomiti».

Per il 2021 ha dei progetti?
«All’inizio della pandemia dovevo andare sull’Everest, perché mi piacerebbe dimostrare che si può scalare la cima più alta del mondo in modo “pulito”, senza corde fisse, senza sherpa e ossigeno. Poi è saltato tutto. In estate avevo programmato di partire in gennaio: avrei dovuto provare a salire un Ottomila in inverno in Pakistan. Vista la situazione, prima come padre, avendo due figlie piccole, ho preferito restare. E nel momento in cui tutti chiedono di evitare spostamenti, mi pareva ipocrita difendere questi messaggi lanciati da chi affronta l’emergenza in prima linea e poi partire. È una questione di coerenza. Mi porrò dei progetti sulle montagne di casa».

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