Il maratoneta di Bolzano che corre le gare «segrete» nei posti impossibili
Dai 42 chilometri a Kabul poco prima dell’arrivo dei talebani, alla gara in Corea del Nord, o in Somalia: Manfred Mussner è appassionato di competizioni rischiose, e ci ha scritto un libro
BOLZANO. Manfred Mussner è un manager altoatesino, lavora all’Enac (l’Ente dell’Aviazione Civile), ed ha la passione della corsa. Ma non va a New York a fare le maratone: Mussner fa parte di un ristretto gruppo di corridori che si danno appuntamento in giro per il mondo per correre delle «maratone impossibili». A Kabul pochi giorni prima della caduta del regime, o in Somalia nel pieno della guerra civile, o in Nord Corea, terra inaccessibile agli occidentali.
Mussner, sudtirolese di 48 anni, ha raccolto queste ed altre avventure «estreme» nel libro «La Maratona segreta», uscito in settembre per i tipi della casa editrice trentina Bertelli Editori (215 pagine, prezzo 20 euro).
«Sono cresciuto in una baita, sopra Brunico, a 2 mila metri di quota, vicino al cielo. La sera si prendeva una candela e si ascoltavano gli altri raccontare. Nel mio libro, ho cercato di fare questo» dice Mussner.
Poi la passione per la corsa: «Quando studiavo all’università, tra le famose cose da fare prima di morire, avevo messo di correre una maratona. Più ho viaggiato, più era difficile per me individuare un Paese speciale per vivere la mia prima Maratona, che volevo fosse l’unica. Mentre leggevo un articolo su Pyongyang ho capito che quello sarebbe stato il luogo ideale per realizzare quel mio proposito da studente. In Nord Corea sarebbe stato tutto diverso da me: cibo, organizzazione, complicazioni burocratiche, fuso orario. Insomma, cercavo la mia corsa speciale».
Mussner ha due figli e una moglie, dice di non aver paura per se stesso, ma per la famiglia che ogni volta lascia a casa.
Come inizia il libro
I miei piedi sono pesanti. Salgo le scale del Jazeera Palace Hotel per raggiungere il tetto del mio albergo: voglio osservare ancora una volta il tramonto africano.
Mi trovo a Mogadiscio, la città più pericolosa del mondo e capitale della Somalia, lo Stato fallito, zona di guerra tra un governo che controlla alcune parti della città, signori della guerra e milizie e il gruppo islamista fondamentalista di Al-Shabaab.
La giornata è iniziata presto per partecipare alla Mogadishu Marathon, una corsa organizzata da collaboratori delle Nazioni Unite e da soldati internazionali con base in questa città. Si svolge nella green zone, in parte tra le baracche militari, in parte lungo
a spiaggia dell’Oceano Indiano, sempre nelle immediate vicinanze dell’aeroporto internazionale Aden Adde. L’intero percorso è controllato da soldati delle Forze Armate dell’Unione Africana e, nonostante ciò, per ragioni di sicurezza è una mezza maratona, non una maratona intera.
Ma anche “soli” 21 chilometri sotto lo spietato sole africano sono costati un bel po’ di sudore e salgo quindi a passo rallentato gli ultimi gradini che mi portano alla terrazza sul tetto. La raggiungo e faccio un respiro profondo. L’aria è ancora calda ed è satura dell’inconfondibile odore di questa terra, un misto di polvere del deserto, di sale dell’oceano, di fumo e di insetti. È un odore del quale ci si dimentica quando si lascia l’Africa, ma che subito assale quando ci si ritorna, e lo inspiro in pieno, come per volerlo portare con me, nelle terre del nord, dove si respira sterilità e freddo.
Sotto di me la città, che una volta era considerata la “perla bianca” dell’Oceano Indiano, inizia a colorarsi di rosso. Fa venire in mente tutto il sangue che vi è stato versato.
Il mio sguardo corre lontano, sull’oceano brillante, un misto tra verde, azzurro e arancio, e poi si sofferma sull’aeroporto internazionale di Mogadiscio. Nonostante l’avanzare del buio, si riescono a individuare senza difficoltà gli aeromobili bianchi appartenenti alla flotta aerea delle Nazioni Unite. Guardo le case circostanti, in gran parte demolite da bombe e proiettili, e la Grande Moschea, maestosa e intatta, l’edificio più grande e imponente che riesco a vedere.
All’orizzonte, dalla parte opposta rispetto al mare, i miei occhi incontrano quella bollente palla di fuoco che domina la vita e la morte su tutta la Terra, ma ancora di più in questo continente. Adesso tinge tutto di rosso, un saluto prima di scomparire e concedere un po’ di tregua a questo mondo ardente. Con la sua discesa, il buio inizia immediatamente ad avvolgere tutto ciò che ho intorno. Il calore nell’aria, invece, non svanisce con la stessa velocità.
La pace dura solo un istante: all’improvviso una raffica di spari. Il suono è esattamente quello dello scoppio dei popcorn che mia mamma preparava in pentola, quando io e i miei fratelli eravamo piccoli, e anche il ritmo irregolare sembra quello dei chicchi di mais che scoppiano nell’olio bollente e battono contro il coperchio. D’istinto faccio un passo indietro, ma è chiaro che gli spari sono lontani. Cerco le persone nelle strade sterrate sotto di me, ma ormai è buio e chi poteva si è già rifugiato in casa, o in quello che ne è rimasto. Noto però che le guardie armate a protezione del mio albergo - che più di un hotel sembra una fortezza - non si sono minimamente allarmate e quelle sulle torri di avvistamento non si alzano nemmeno per vedere cosa sta succedendo. Gli spari cessano e io mi rilasso. Torna a sentirsi il caratteristico canto delle cicale, quasi altrettanto rumoroso.
Mi fermo ancora un po’, inspiro di nuovo l’aria, gli odori, ascolto i suoni di Mogadiscio. Mi guardo intorno: nel buio potrebbe essere una città qualsiasi, certo molto calda, essendo ubicata non lontano all’equatore.
Spuntano le stelle e cerco di individuare qualche costellazione. Proprio in questo istante il muezzin inizia a intonare il suo solenne richiamo alla preghiera. E non c’è altro posto al mondo nel quale vorrei trovarmi.