Il dramma degli anziani in Rsa «Stavano male, ma pochissimi venivano portati in ospedale»

di Patrizia Todesco

Degli anziani contagiati nelle Rsa solo una sessantina quelli che nelle scorse settimane sono stati trasferiti negli ospedali per ricevere maggiori cure contro il Covid. Un numero basso e in parte legato a direttive che le varie Apsp avevano ricevuto all’inizio dell’emergenza. «Le Rsa devono essere considerate a tutti gli effetti come strutture a bassa intensità di cura per la presa in carico dei casi di infezione accertata o sospetta nell’interezza del percorso assistenziale, e non devono operare alcun trasferimento verso gli ospedali», scriveva l’Azienda sanitaria in una nota inviata a Upipa, Spes e alle Rsa della Provincia. Un provvedimento preso con un duplice obiettivo: tenere il più possibile liberi i posti letto in ospedale e dall’altra evitare ai pazienti delle Apsp trasferimenti che avrebbero potuto peggiorare le loro condizioni. Ascoltando le testimonianze di chi lavora nelle Apsp, però, viene da pensare che non tutto quanto fatto è stato un bene per i pazienti.

Impotenti, provati, impauriti e in molti casi anche arrabbiati. Gli operatori delle Apsp stanno facendo l’impossibile per gestire la situazione, ma sono però incapaci di comprendere alcune scelte, come quella di non trasferire i casi più gravi in ospedale. Hanno poi vissuto sulla loro pelle i ritardi con i quali i provvedimenti di contenimento sono stati adottati. Storie diverse, accomunate dal grande dolore per la perdita di pazienti che in molti casi erano diventati per chi li accudiva persone care. «Abbiamo il terrore, soprattutto di notte, di entrare nelle stanze e trovarli morti. È accaduto ormai troppe volte». ammettono chiedendo l’anonimato perché in un momento così delicato mettere fuori la testa può voler dire rischiare il posto di lavoro.

Ritardi, si diceva, come racconta un’operatrice di Bezzecca. «A fine febbraio c’è stato il caso di una ospite mandata al Pronto soccorso per problemi respiratori. Il pomeriggio ci hanno avvisato che sarebbe rientrata in struttura perché le era stata dignosticata una pleurite. Ci siamo subito chiesti se le fosse stato fatto il tampone visto che già si parlava di Coronavirus, ma in realtà ci è stato detto che il medico dell’ospedale in accordo con quello della nostra struttura non lo aveva ritenuto necessario». All’epoca nella Apsp gli operatori non utilizzavano nessuno dispositivo di sicurezza. «Anzi, ci era stato detto di non usare la mascherina perché avremmo spaventato gli ospiti. L’ospite riportata a casa dall’ospedale è stata messa in camera con un’altra e il giorno dopo era in sala da pranzo con tutti. Per un problema vascolare dopo qualche giorno era stata rimanda in Ps e in quell’occasione le era stato fatto il tampone ed era positivo». A quel punto il danno era fatto e il numero di contagiati e morti è cresciuto di giorno in giorno. «Noi operatori abbiamo fatto quello che potevamo, ma ad un certo punto gran parte degli ospiti era allettato, molti operatori hanno iniziato ad ammalarsi ed è stato il caos. Siamo stati lasciati in balia di noi stessi. L’ordine, ci era stato detto, era quello di non trasferire nessuno degli ospiti, salvo che non avessero patologia extra Covid. Ci hanno mandato in guerra senza fucile. Tutti noi abbiamo una famiglia e quegli ospiti erano la nostra seconda famiglia. Abbiamo visto gente morire e ci siamo sentiti impotenti. Hanno iniziato ad alzare la guardia dopo i primi decessi ma ormai era tardi. Poi in tv hanno detto che gli operatori forse si erano ammalati per i loro stili di vita: ci siamo sentiti pugnalati alle spalle. Noi abbiamo visto come sono andate le cose. Ospiti che fino al giorno prima stavano abbastanza bene, che giravano con le loro gambe nella struttura, sono stati uccisi dal virus. Alla fine si sono fatti trovare impreparati. Le notizie c’erano già un mese prima ma invece siamo stati travolti dagli eventi».

Apsp diversa ma testimonianza analoga da Pergine. «Era l’inizio di marzo quando un primo paziente è stato inviato a Borgo per difficoltà respiratorie. Di lui non abbiamo saputo più niente, ma per vie non ufficiali abbiamo saputo che era stato messo in isolamento per sospetto Covid. Peccato che a noi non sia stato detto niente e che nessuna misura sia stata adottata in Apsp». Due giorni dopo, altri due pazienti delle camere vicine hanno avuto sintomi collegabili a Covid-19. «A loro è stato fatto il tampone ed è risultato positivo. Ma anche in quel caso mentre l’infermiera ci ha distribuito la mascherina chirurgica da indossare i vertici della struttura ci dicevano di toglierla per non spaventare gli ospiti. Così siamo stati due giorni senza, a stretto contatto con queste persone».

L’epidemia poi è scoppiata. «Al secondo piano era stata adibito un salone per i malati Covid e uno per quelli solo sospetti. Nel primo ci era stato detto di entrare solo una volta per dar da mangiare, bere e cambiarli. Il problema è che queste persone avevano difficoltà a mangiare e bere e alla fine sono sopravvissuti più quelli con la Peg che gli altri».

Grande confusione ci viene poi raccontata sulla sistemazione dei pazienti, sui kit da indossare, ma univoco è il racconto sul dramma. «È stato un inferno. Ad un certo punto entravano in una sorta di coma, non mangiavano e non bevevano più e poi spiravano. La rabbia è che noi sapevamo, soprattutto all’inizio, che in ospedale avevano dimezzato i posti in geriatria per riservarne parte ai pazienti Covid ma mentre lì c’erano letti liberi da noi morivano senza che potessimo fare nulla. Perché non li hanno portati in ospedale? Solo dopo tre settimane di emergenza due persone sono state portate in ospedale e quando abbiamo chiesto come mai loro sì e gli altri no ci hanno detto che è perchè lo avevano chiesto i parenti. Una risposta che non ha convinto nessuno». Le parole di chi ha lavorato in prima linea vicino ai pazienti sono intrise di dolore. «Ho visto persone morire malissimo, in maniera bruttissima e me lo ricorderò per tutta la vita. Ho tanta rabbia dentro per questo. Non so di chi sia la responsabilità di tutto questo ma noi abbiamo fatto il possibile. Aspettavamo che qualcuno venisse ad aiutarci ma ci hanno lasciati soli. È stata una cosa più grande di noi. Abbiamo visto tanta disperazione».

Il fatto che siano stati eseguiti pochi tamponi e di conseguenza la divisione tra pazienti Covid e quelli non Covid non sia stata rapida ha influito sicuramente nella diffusione del contagio. «Tutt’oggi è difficile - ammette un’operatrice dell’Apsp di Mezzolombardo dove fino ad ora le vittime sono state 13 - Vediamo pazienti aggravarsi con sintomi che durano settimane e in rarissimi casi vanno in ospedale. Quello che possiamo testimoniare noi è il calvario vissuto da molti ospiti che vengono aiutati a respirare con 4-6 litri di ossigeno al giorno ma con grandi sofferenze. Noi facciamo quello che possiamo ma è per tutti un’esperienza devastante. L’impressione è che sia già stato deciso chi curare e chi no in ospedale altrimenti non si spiega come mai nelle Apsp ci siano decine di persone con gravi dispnee e che soffrono enormemente e in ospedale si smantellino i posti letto. Solo la scorsa settimana è arrivato un medico palliativista che ha aiutato nel suo percorso una signora che da 5 settimane stava soffrendo le pene dell’inferno. Tropo tardi però, si doveva e si dovrebbe far di più».

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