Salute / Cervello

Conoscere la demenza, non tacerla, non isolare le persone malate: i consigli dell'esperto di UniTN

Sulla rivista dell’ateneo, parla il professor Giorgio Fumagalli: dai farmaci per l’Alzheimer («da 25 anni ci provano, non c’è ancora una cura») ai consigli per la prevenzione (anche il burraco, sì, va bene)

TRENTO. L’articolo, di Elisabetta Brunelli, è stato pubblicato oggi online sul magazine dell’Università di Trento, UniTrentoMag. Ed è una specie di piccola «guida» alla demenza condensata in una conversazione con Giorgio Fumagalli che al Cerin e sul territorio aiuta a conoscere e a prevenire il declino cognitivo.

Si può fare molto per prevenirla. Gli strumenti per una diagnosi precisa e precoce sono in continua evoluzione. Ma soprattutto se ne deve parlare. Solo così si può togliere lo stigma che ancora emargina le persone con demenza e le loro famiglie. Ne è convinto Giorgio Fumagalli, medico e neurologo che si è formato tra Milano e Londra, da due anni in attività all’Università di Trento e sul territorio per fare ricerca, formazione e informazione sul declino cognitivo.

La sua giornata si divide tra visite, lezioni e incontri. Proposte dedicate a caregiver al Centro di riabilitazione neurocognitiva (Cerin) del Centro interdipartimentale Mente/Cervello dell’Università di Trento (Cimec) e iniziative per parlare delle demenze alla popolazione in generale in collaborazione con le associazioni Alzheimer Trento, Aima Rovereto, Rencureme di Moena e Accogliamo l’Alzheimer di Pinzolo. E in programma c’è di portare nelle scuole lo spettacolo “Pensiero sbiadito” realizzato con il Collettivo Clochart di Mori.
Fumagalli racconta che la partecipazione alle proposte è sempre alta, in molti casi oltre le aspettative. Le persone hanno voglia di capire. «La gente ha paura dell’Alzheimer, che è la demenza più conosciuta. Ha paura di perdere il controllo e di dover dipendere. Parlarne è importante perché aiuta a togliere un po’ lo stigma. Se non si parla del problema, non lo si conosce e se non lo si conosce, non lo si risolve».
Porta l’esempio delle comunità amiche delle persone con demenza (Dementia Friendly Community) che «in tante località del Trentino fanno sentire le persone malate ancora parte della comunità e le mettono nella condizione di comprarsi, ad esempio, il pane e il giornale in esercizi pubblici sensibilizzati al tema e capaci di rapportarsi con loro. In cooperazione con la famiglia, il medico di base e tutta la rete sociale».
Un’esperienza che lo ha colpito, poi, è il gruppo delle Scintille composto da persone con declino cognitivo lieve che hanno realizzato una guida agli angoli meno conosciuti di Trento. «Vogliono sentirsi parte della città ed essere di aiuto per gli altri e parte attiva contro la malattia. Dobbiamo coinvolgersi e ascoltarli. È stato davvero emozionante incontrarli».

Interagire è una delle grandi sfide. «Perché alcune forme di demenza sono associate a problemi di linguaggio per afasia, perdita del significato delle parole e della capacità di comprendere un discorso. Ma non è solo un fatto di comunicazione. Occorre prendere coscienza della malattia, mettersi nell’ottica che non fanno apposta a dimenticarsi le cose, informarsi. E se si perde la pazienza con loro, meglio uscire dalla stanza e rientrare con il sorriso. Le persone con demenza sono come degli specchi: riflettono la rabbia o la serenità che vedono sul volto accanto».

«Le forme neurodegenerative di demenza sono anche dette primarie perché sono accomunate da un problema nel sistema nervoso centrale. Solitamente una proteina tossica si accumula e determina la perdita dei neuroni. Diverse proteine causano diverse forme di demenza. Le persone manifestano decadimento cognitivo, cioè la perdita delle funzioni che avevano sviluppato, come memoria, linguaggio, le funzioni esecutive (come ad esempio pianificare un programma per ottenere un obiettivo) o di assumere comportamenti adatti alle situazioni».
I test per intercettare il decadimento cognitivo misurano le capacità di orientamento, memoria e attenzione, il riconoscimento degli oggetti, la facoltà di rispondere a domande e comandi e la capacità di scrittura e di riproduzione di figure complesse.
Riuscire a distinguere tra le varie forme di demenza è imprescindibile ed è in continua evoluzione lo sviluppo di strumenti per arrivare a diagnosi sempre più accurate e precoci.
«Al momento come strumenti abbiamo i biomarcatori, degli elementi misurabili che ci aiutano nella diagnosi differenziale (di quale forma si tratta), nella prognosi (come evolverà) o nella risposta alla terapia. Per cercare la presenza della proteina beta-amiloide, tipica nella malattia di Alzheimer, si procede con il prelievo del liquido cefalorachidiano dal sistema nervoso centrale, oppure con la Pet, tomografia a emissione di positroni con uno speciale mezzo di contrasto, che è una tecnica diagnostica di imaging. Nell’arco di qualche anno si arriverà a strumenti meno invasivi e più fattibili come può essere un esame del sangue. Ci sono molti margini di miglioramento, ma dobbiamo guardare l’applicabilità nella pratica clinica».

La scommessa è intercettare la malattia prima della comparsa dei sintomi. «Ciò ci permetterà di prevenire molte forme di demenza. Nella mia ricerca mi occupo di mettere a punto delle scale visive di atrofia per misurare i cambiamenti nella risonanza magnetica cerebrale del paziente. Studio poi le demenze con base genetica, in quanto modelli anche per le forme non genetiche».

Per Fumagalli «quello dell’industria farmaceutica sull’Alzheimer è un investimento molto rischioso perché in oltre 25 anni numerosi studi hanno fallito nel trovare una cura. Ma ogni farmaco che viene studiato e sviluppato è un nuovo passo in avanti nella ricerca, una freccia in più nella faretra».

Intanto conduce una sua particolare lotta: «La mia battaglia è nel non usare l’espressione “demenza senile” perché ci sono anche casi giovanili e perché il declino cognitivo non è una condizione inevitabile nell’invecchiamento».
Insomma, il declino cognitivo si può prevenire?
«Se si attuano una serie di comportamenti, si può ridurre il rischio di demenze neurodegenerative o almeno ritardarne l’età di insorgenza. Innanzitutto, non fumare o smettere di fumare. Poi avere un’alimentazione ricca di frutta e verdura ma povera di carne e di grassi, a base di cereali, meglio se integrali. Fare movimento, almeno mezz’ora ogni giorno, sia la passeggiata con un’amica come un allenamento quotidiano in competizione con il vicino di casa, oltre a evitare l’uso dell’ascensore o dell’auto ogni volta che si presenti l’occasione. Partecipare ad attività sociali per curare le relazioni interpersonali. Dedicare un giusto tempo al sonno perché mentre si dorme si attiva il sistema glinfatico che toglie le proteine tossiche dal cervello. Infine, scegliere una stimolazione cognitiva che piaccia (e che quindi si continuerà a fare). Come imparare a suonare uno strumento musicale, una lingua straniera, gli scacchi, il burraco o un altro gioco. Come tenere un diario perché stimola la creatività, aiuta a fissare i ricordi sulla carta e nella memoria, dà la possibilità di verificare se ci ricordiamo cosa abbiamo fatto nei giorni precedenti. L’importante è che sia un impegno quotidiano come l’allenamento fisico e che sia un po’ più difficile del livello a cui siamo abituati».

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