Festival dello Sport a Trento, Meneghin l'uomo dei record
È il 5 settembre 2003 quando Robert Allen McAdoo, detto Bob, prende la parola sul palco della «Hall of Fame» del basket a Springfield Massachussets. «Ho avuto il privilegio di giocare con grandi giocatori nella mia carriera. Walt Frazier, Bob Lanier, Dave Cowens, Magic Johnson, Kareem Abdul Jabbar, Julius Erving, Moses Malone, Charles Barkley. E nell’ultima fermata della mia carriera in Italia, con Dino Meneghin. Dino appartiene al livello di questi giocatori. Prima di giocare in Italia, avevo saputo di lui, della sua leggenda e della sua reputazione. A lui ho persino ceduto la mia classica maglia n° 11. Dino Meneghin ha avuto una carriera straordinaria. Nessun altro in Europa, eccetto i suoi compagni, ha raggiunto i suoi risultati. In campo faceva tutto quello che era necessario per vincere, punti, rimbalzi, difesa, passaggi. È stato il più grande vincente del basket europeo. Sono orgoglioso di introdurre il più grande giocatore italiano di sempre, Dino Meneghin».
Nel basket Dino Meneghin è sinonimo di record: maggior numero di stagioni giocate in Serie A (28), più scudetti (12) e Coppe dei Campioni (7) vinti, primo giocatore italiano scelto nei Draft Nba, primo (e unico) cestista di Serie A a giocare contro il proprio figlio, protagonista con la Nazionale che vinse la prima medaglia olimpica italiana nel basket. E di sicuro di primati ce ne sono scappati altri.
Meneghin, il record è il tema del Festival dello Sport di quest’anno. Di quale va più fiero?
«Più che ai numeri sono legato alla continuità. Ho avuto la fortuna di giocare sempre con grandi squadre e questo mi ha permesso di vincere molto. I miei successi sono vittorie di squadra e quindi li ho sempre condivisi con il gruppo. I record, prima o poi verranno battuti, ma la soddisfazione di averli raggiunti resta eterna».
Ventotto stagioni in Serie A. Com’è stato possibile?
«Il fisico ha tenuto, al di là di qualche frattura. Mi sono allenato tantissmo, ma la passione è sempre stata la benzina che mi ha spinto ad andare avanti, a sopportare infortuni e momenti no».
Cos’è stato, a 44 anni, a farle dire basta?
«Il fatto che le idee andavano più veloci delle gambe. La competitività degli avversari aumentava di continuo e ormai il fisico non teneva botta».
Altro primato probabilmente irraggiungibile nel basket: 12 scudetti.
«Una soddisfazione enorme perché dà il senso di un periodo lunghissimo di lavoro e dedizione verso la pallacanestro. Oltre al numero, mi rimane la soddisfazione e l’onore di aver giocato in grandi squadre in cui non c’erano invidie e gelosie e tutto era pianificato con un unico obiettivo: la vittoria. A Varese prima e a Milano poi arrivare secondi era considerato un insuccesso».
Il compagno più forte?
«Domanda tosta perché tra Varese, Milano e poi Trieste ho giocato con gente fortissima. Dire un nome solo vorrebbe dire fare una torto a tanti altri».
Gli avversari più temibili?
«Il primo nome che mi viene in mente è Volodymyr Thacenko, un russo di 220 cm e 140 chili: enorme. Poi aggiungo due giocatori che oltre ad essere grandi e grossi erano tecnicamente fortissimi: Kresimir Cosic e Arvidas Sabonis».
Nessun giocatore in Europa ha vinto quanto lei, 7 Coppe dei Campioni, 5 a Varese e 2 a Milano.
«Più dei 7 trionfi io ci tengo a dire che a Varese abbiamo giocato 10 finali consecutive: penso che questo sia il record che non verrà mai battuto».
Nel 1970 fu il primo giocatore di basket italiano ad essere scelto da una squadra Nba.
«Altri tempi. Pensi che quando mi scelsero gli Atlanta Hawks lo seppi dai giornali. Nessuno dalla Georgia mi chiamò per dirmi che li interessavo. Fu una cosa del tutto inaspettata, e alla fine nessuno si fece avanti. Poi, qualche anno dopo, ricevetti un’offerta dai New York Knicks per partecipare al camp estivo ma a malincuore dovetti rinunciare perché mi ero appena infortunato al ginocchio. Finì tutto nel dimenticatoio, eppoi io stavo bene a Varese e dunque allora non mi pesò tanto. L’Nba era un mondo sconosciuto. Si sapeva pochissimo, se non per voce di qualche ex Pro che veniva a giocare in Europa. Ma per noi era come parlare di Marte. Certo, ora è tutto diverso».
Nota di rammarico?
«Dico solo che se ora avessi 20 anni e dall’Nba nessuno mi chiamasse andrei io a bussare e dire: “Provatemi”. E una cosa che mi manca non essermi potuto misurare con i più bravi al di là dell’Oceano».
Cosa che non potè fare nemmeno alle Olimpiadi di Mosca, quando lei trascinò l’Italia all’argento.
«Esatto. C’era infatti il boicottaggio degli Usa. Perdemmo in finale con la Jugoslavia che in quegli anni era fortissima. Aveva in squadra gente come Delibašic, Kicanovic, Dalipagic, Cosic. In ogni caso le Olimpiadi sono la più bella manifestazione sportiva in assoluto perché hai tutto il mondo a portata di mano. A livello di competizione non cambia tanto rispetto ai campionati mondiali, ma l’atmosfera è tutta un’altra cosa. Vivere le Olimpiadi è uno dei regali più belli che dà lo sport».
A proposito di regali ed emozioni, come fu giocare contro il proprio figlio?
«Era il 1990. Io giocavo a Trieste e avevo 40 anni, Andrea era a Varese e ne aveva 16. Mi sentii vecchissimo, e quando lo vidi “zompettare” per il campo capii che stava arrivando la mia fine. Fu però anche una grande soddisfazione perché lo vidi stare in campo con grinta, sicurezza, padronanza del gioco».
La dinastia Meneghin proseguirà in Serie A?
«Andrea ha due bimbe ma io continuo a dirgli che la Nazionale ha bisogno. Chissà...».
Visto che si parla di nuove generazioni: un consiglio ai giovani.
«Prima di tutto devono capire per quale sport il loro fisico è portato e poi avere passione, amare quello che si fa e non essere mai soddisfatti dei propri risultati per migliorarsi giorno dopo giorno con dedizione e sacrificio».
Il Festival di Trento ha riservato uno spazio prestigioso alla «sua» Olimpia dei record. È stata veramente la squadra più forte di sempre in Italia?
«In quegli anni c’erano anche Virtus e Pesaro, ma in ogni caso eravamo una grandissima squadra con alle spalle una società seria, solida e preparata. Impossibile invece confrontare epoche diverse, Varese negli anni Settanta e Milano a metà degli anni Ottanta. Quelle squadre avevano in comune una cosa: la continuità di rendimento perché vinsero ed ebbero un rendimento alto per diverse stagioni. Non è banale: se ci pensiamo, anche adesso la cosa più difficile è ripetersi».
La Milano di Pianigiani potrebbe farcela, o no?
«I presupposti per dare continuità ai risultati ci sono tutti: il Gruppo Armani garantisce forza ecomica e stabilità, la società è seria e tutto questo rende più semplice arrivare alla vittoria. Sassari e Venezia hanno dimostrato di poter vincere anche con budget minori, ma Milano sembra destinata ad aprire un ciclo».
E di Trento che idea si è fatto?
«I suoi risultati sono il frutto di una programmazione oculata e di un progetto portato avanti passo dopo passo. Mi ricordo che quando vidi il palazzetto per la prima volta da team manager della Nazionale dissi in Federazione: “Occhio che lì stanno costruendo qualcosa di importante”».
Torniamo all’inizio: l’inclusione nella Hall of Fame, l’Olimpo dei grandi del basket.
«Onestamente non me l’aspettavo. Quando mi venne annunciata pensavo si trattasse di “Scherzi a parte”. La cerimonia fu bellissima, fu tutta una magia, anche perché gli americani sono bravissimi a fare questi show, fanno sentire tutti importanti. Figuratevi che mi trattarono allo stesso livello di Robert Parish e James Worthy».
Immagino l’emozione nel sentire McAdoo accostarla a Jabbar e Magic.
«Bob è un amico! Con lui c’è un rapporto veramente particolare. Quando venne in Italia tutti pensavano che fosse ormai finito e invece fu così bravo da alzare il livello della nostra squadra a partire dagli allenamenti. La cosa più sorprendente era la grinta che ci metteva in ogni cosa, figlia di una mentalità vincente che si portava dietro dai suoi grandi anni in Nba».
Non a caso a quel tempo Dan Peterson, che di Milano era l’allenatore, diceva che la sua era «la ventisettesima squadra Nba» (allora erano 26). «L’Olimpia dei record», appunto. Il Festival dello Sport la omaggerà domenica 14 alle ore 14.30 in Sala Depero in Provincia. Con il giornalista della Gazzetta Massimo Oriani ricorderanno «i vecchi tempi» proprio Dino Meneghin, Dan Peterson, Bob McAdoo, Ricky Pittis e Roberto Premier. Riunirli dopo più di 30 anni, un record anche questo.