Semi "open source" contro i brevetti
Arriva dagli Stati Uniti la prima campagna scientifica concreta contro la pratica dilagante, utlizzata soprattutto dalle multinazionali, di imporre semi brevettati agli agricoltori. Si basa sull'utilizzo di semi "open source", ossia disponibili liberamente e non brevettabili.
NEW YORK - Dagli Stati Uniti sono in arrivo i semi «open source»: un gruppo di scienziati e di attivisti americani hanno lanciato oggi una campagna per cambiare le regole sullo scambio di semi dell’ortofrutta tra agricoltori.
Quinoa, broccoli, carote: sono in tutto 29 le varietà che il gruppo spalleggiato dall’Università del Wisconsin a Madison ha distribuito oggi a chi s’impegna a sottoscrivere un’intesa «open source» che salvaguarda la possibilità degli agricoltori e dei giardinieri di scambiarsi gli ibridi liberamente.
I semi «open source» sono ispirati all’esempio del software «open source» che è disponibile liberamente ma non può legalmente esser convertito in proprietà che genera profitto.
In agricoltura questo significa che l’uso dei semi non può essere limitato da brevetti, licenze o altro tipo di proprietà intellettuale, anzi: ogni varietà derivata dai semi «open source» dovrà poter essere liberamente scambiata anche in futuro.
«In pratica si crea un sistema parallelo, un nuovo universo in cui i selezionatori e gli agricoltori possono condividere i semi ampliandone il patrimonio genetico senza restrizioni», ha spiegato il sociologo Jack Kloppenburg. L’iniziativa, che ha attirato l’interesse della Fao, è un tentativo di riportare l’agricoltura a tempi in cui, fino a una generazione fa, era pratica comune tra gli agricoltori di scambiarsi i semi, ha detto Irwin Goldman, esperto di orticoltura all’Università del Wisconsin, che ha aiutato a organizzare la campagna.
«Se vent’anni fa altri selezionatori ci chiedevano il nostro materiale, mandavamo loro un pacchetto si semi e loro facevano lo stesso con noi», ha spiegato Goldwin: «Purtroppo questo magnifico modo di lavorare non esiste più».
Oggi i semi sono «proprietà intellettuale», alcuni sono addirittura brevettati come invenzioni: serve il consenso del titolare del brevetto per usarli, quasi sempre una multinazionale come la Monsanto, oltre al fatto che usualmente la licenza è per un anno soltanto. I semi del raccolto non possono essere usati l’anno successivo.
Queste regole sono adottate anche dai laboratori universitari. Quando Goldwin crea nuove varietà di cipolle, carote o barbabietole, l’ufficio responsabile della proprietà intellettuale dell’ateneo si occupa di registrarne il trademark prima di venderli alle società che li commercializzano. Un percorso che, a giudizio dell’esperto, conduce a una restrizione dell’accesso al germoplasma: «Se non lo condividi, finisci per limitare la nostra capacità di migliorare i prodotti ortofrutticoli». (ANSA)